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Ancora sul MES

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Da WallstreetItalia Riforma Mes: tutti i problemi sul tavolo, spiegati da 4 economisti 11 Dicembre 2019, di Alberto Battaglia Non si ricorda facilmente una polemica politica innestata su un tema più tecnico e complesso del Meccanismo europeo di stabilità (Mes, o Fondo Salva Stati). Dopo aver trattato i caratteri generali di questo fondo (si veda la nostra guida per punti), Wall Street Italia ha deciso di entrare nel merito degli aspetti più discussi e spinosi della riforma del Mes. Abbiamo posto le stesse domande a quattro esperti, estranei all’arena politica:Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio italiano dei conti pubblici presso l’università Cattolica di Milano, ex direttore esecutivo al

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Da WallstreetItalia

Riforma Mes: tutti i problemi sul tavolo, spiegati da 4 economisti

11 Dicembre 2019, di Alberto Battaglia
Non si ricorda facilmente una polemica politica innestata su un tema più tecnico e complesso del Meccanismo europeo di stabilità (Mes, o Fondo Salva Stati). Dopo aver trattato i caratteri generali di questo fondo (si veda la nostra guida per punti), Wall Street Italia ha deciso di entrare nel merito degli aspetti più discussi e spinosi della riforma del Mes. Abbiamo posto le stesse domande a quattro esperti, estranei all’arena politica:
  • Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio italiano dei conti pubblici presso l’università Cattolica di Milano, ex direttore esecutivo al Fondo Monetario Internazionale, ex commissario alla Revisione della spesa. Fra le sue ultime opere divulgative: “Tutte le bufale sull’economia a cui continuiamo a credere”.
  • Nicola Borri, professore assistente presso la Luiss di Roma ed esperto di debito sovrano (pagina Scholar).
  • Sergio Cesaratto, ordinario di economia presso l’università di Siena, autore di testi anche a carattere divulgativo (l’ultimo: “Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne). (pagina Scholar).
  • Emiliano Brancaccio, professore associato presso l’università del Sannio, volto noto del dibattito televisivo e promotore, nel 2010, della “Lettera degli economisti” all’Ue contro le politiche economiche restrittive (pagina Scholar).
Perché l’Eurozona ha bisogno di un fondo dedicato alle crisi finanziarie dei suoi membri? Perché si è ritenuta l’ipotesi di un’assistenza del Fmi non sufficiente a far fronte a questo tipo di crisi?

Cottarelli: L’
Eurozona, a differenza degli Stati Uniti, ha bisogno di un Meccanismo di stabilità perché le probabilità che uno Stato come la Virginia esca dall’unione è molto bassa. Il problema è che un squilibrio economico in Europa può sollevare nei mercati la possibilità che uno Stato possa decidere di uscire dall’euro, creando un sconquasso per l’intera area. Teniamo conto che l’Unione monetaria europea esiste da poco e che negli Usa c’è voluta una guerra di secessione per rendere chiaro che quell’unione non si sarebbe più spaccata.
Il fatto che l’Eurozona si doti di un Fondo monetario europeo nasce dall’idea che i suoi interessi siano meglio tutelati da finanziamenti di origine europea, contrariamente a quelli di tipo globale del Fondo monetario internazionale. C’è poi un altro aspetto, il Fmi non ha risorse illimitate e nel caso di una crisi di un grosso Paese potrebbe non bastare il suo intervento. Il Mes, pur avendo anch’esso risorse illimitate, può far scattare l’intervento quasi illimitato da parte della Banca centrale europea.

Borri: L’Europa ha deciso di dotarsi di questo strumento perché il Fondo monetario internazionale è stato pensato per intervenire nel caso di Paesi di dimensioni medio-piccole. La sua dotazione in termini di capitale non è adeguata per intervenire nel caso un Paese delle dimensioni dell’Italia finisse in crisi. Il caso della Grecia, in cui il Fmi intervenne, fu speciale se si considera la dimensione del suo intervento.

Cesaratto: Quella del Mes potrebbe essere un occasione per sollevare proprio questo problema: perché l’Eurozona ha bisogno di questo strumento, mentre negli Stati Uniti non c’è? La risposta è che l’unione monetaria degli Stati Uniti dispone delle istituzioni adeguate affinché questa sia sostenibile. Il bilancio federale americano può agire in funzione anticiclica: durante la crisi il deficit sul Pil è arrivato al 10%. Poi, il bilancio federale Usa ha una funzione perequativa nei confronti degli Stati. Nell’Eurozona, invece, manca un bilancio di tipo federale che abbia dotazioni consistenti e che possa andare in disavanzo. La politica anticiclica in Europa, invece, resta in mano agli Stati nazionali.
Questi, non potendo contare sulla garanzia di una banca centrale come prestatrice di ultima istanza sono maggiormente esposti al rischio default. E da qui deriva l’idea di dotare l’Eurozona del Meccanismo europeo di stabilità. Nell’Eurozona, inoltre, manca una condivisione dei rischi a livello di debito pubblico. Se questa si realizzasse l’Italia avrebbe risparmi notevoli in termini di riduzione dei tassi d’interesse. L’Europa è politicamente incapace di dotarsi delle istituzioni che la renderebbero un’unione monetaria sostenibile perché non è una nazione come lo sono gli Stati Uniti. Il Mes si inserisce in questa logica “ibrida” in cui gli Stati nazionali restano a rischio di default.

Brancaccio: Il Meccanismo europeo di stabilità nasce su un’ipocrisia di fondo. Il Mes e il suo predecessore – il Fondo europeo di stabilità finanziaria – sono stati creati perché l’assetto complessivo delle regole europee proibisce alla Banca centrale europea di agire direttamente come prestatore di ultima istanza. Se la Bce fosse autorizzata ad agire come le altre banche centrali non emergerebbero tutti quei problemi che creano fibrillazioni nei mercati. Il Mes ha la funzione di costituire un filtro che consenta alla Bce di intervenire, in seconda battuta.
Il problema è che il Fondo Salva Stati, per com’è configurato, rischia di inceppare il meccanismo piuttosto che veicolare l’azione della Bce. Solo una volta completato l’iter procedurale del Mes potrebbe intervenire la Bce. Ma l’esperienza storica ci insegna che durante le crisi il prestatore di ultima istanza deve intervenire subito e con una forza d’azione potente. Il Mes, invece, fa sì che la Bce possa intervenire solo tardi e male.

Uno degli aspetti più controversi del Mes riguarda la condizionalità di questo sistema. Da un lato istituzioni internazionali di questo tipo intervengono sempre vincolando i fondi a misure correttive. Dall’altro, forse, si è esagerato con il timore che, che i possibili beneficiari possano cadere nell’azzardo morale. E’ così?

Cottarelli: Su questo punto vorrei precisare che la riforma del trattato del Mes prevede che la ristrutturazione del debito sia adottata in casi eccezionali. Non si è accettata la posizione di alcuni Paesi del Nord Europa sull’automatismo in merito alla ristrutturazione del debito. Detto questo, il ruolo separato del Mes, rispetto a quello della Commissione, nel valutare se una ristrutturazione sia necessaria o meno potrebbe indicare che l’ipotesi di una ristrutturazione potrebbe essere un po’ meno eccezionale rispetto a prima.
Si tratta di sfumature scaturite in parte dal fatto che il Mes non è una struttura comunitaria, ma internazionale. Non penso che questo mini alla base obiettivi di solidarietà.
Auspico, però, che si possa ancora lavorare per trasformare il Mes in un’istituzione comunitaria. Nel caso dovesse verificarsi una crisi in Italia quello che temo è che il Mes potrebbe chiedere, come condizioni per l’erogazione del finanziamento, o una ristrutturazione del debito o una tassa patrimoniale una tantum per abbattere rapidamente il debito. Temo che questo sarebbe lo scenario perché i nostri cugini d’Oltralpe sono convinti che l’aggiustamento graduale non è possibile.
E’ un’opinione che deriva dall’esperienza del passato, in cui sono avvenuti anche degli aggiustamenti nel nostro Paese, seguiti poi da marce indietro. Ad esempio nel 2001, quando prima di entrare nell’euro l’avanzo primario di bilancio era stato portato al 5% sul Pil, per poi azzerarsi. Credo, però, che sia sbagliato prevedere il futuro solo sulla base del passato.
Più di una ristrutturazione, che peserebbe in prevalenza sugli stessi cittadini italiani, sarebbe ragionevole richiedere all’Italia un aggiustamento sui conti pubblici graduale (quello di Monti nel 2011 forse era stato troppo forte). E soprattutto far approvare quelle riforme che consentirebbero al Paese di crescere: 1) abbassare la pressione fiscale, recuperando risorse dall’evasione e riducendo la spesa pubblica; 2) un drastico taglio alla burocrazia 3) velocizzare la giustizia civile.

Borri: Sì, questi prestiti internazionali vengono sempre condizionati a certe richieste. Una precisazione importante. Le scelte del Mes, quando decide di erogare o meno un prestito sono legate a un giudizio sulla probabilità della sua restituzione. Per questo, se un prestito viene erogato a un Paese ad elevato debito, esso è condizionato a politiche che ne assicurino la sostenibilità. L’idea è che il Mes trovi, a sua volta, le risorse economiche necessarie finanziandosi sul mercato [emettendo obbligazioni Ndr.].
Dunque, se il Fondo Salva Stati facesse prestiti troppo rischiosi, il tasso d’interesse sui bond emessi dal Mes sarebbe più elevato e ciò si scaricherebbe o sugli altri Paesi azionisti del Fondo o, molto più probabilmente, sul Paese in condizioni di bisogno. Il fatto che il prestito si accompagni a garanzie sulla sua restituzione fa sì che il costo di questi finanziamenti sia più ridotto e questo va anche incontro ai Paesi in stato di necessità.
Per quanto riguarda la possibilità che fra le condizioni vi possa essere la ristrutturazione del debito ricordo che essa viene citata solo come un’opzione percorribile su richiesta del Paese interessato. Il Mes offrirebbe a quel punto un servizio di consulenza per trovare un accordo con i creditori nell’ambito della ristrutturazione. Si potrebbe dire che la ristrutturazione è prevista come una strada aperta per quei Paesi che ritengano più conveniente utilizzarla.

Cesaratto: Penso che le condizionalità previste dal Mes per l’erogazione dei sui finanziamenti siano peggiori di quelle del Fmi. Questo perché, quantomeno, nei salvataggi del Fondo monetario si consentiva ai Paesi in difficoltà di svalutare la propria moneta, ridando fiato alle esportazioni e mitigando gli effetti dell’austerità fiscale [prevista in parallelo al deprezzamento della moneta]. Nell’Eurozona la svalutazione non si può fare, ma resta un’austerità fiscale feroce. Il Mes, al di là delle modifiche non profonde di questa riforma, consentirebbe un salvataggio automatico ai Paesi “virtuosi”. Per quelli più problematici, invece, prevede condizionalità che non escludono ipotesi di ristrutturazione.
L’Italia, qualora fosse prevista una ristrutturazione nell’ambito dell’erogazione del finanziamento Mes, potrebbe dover scegliere fra un taglio del valore dei titoli di stato principalmente detenuti da risparmiatori e banche italiane, o rifiutare il sostegno finanziario e uscire dall’euro.

Brancaccio: Osservando le condizionalità espresse nella bozza di riforma del Mes, potremmo spingerci a dire che esse siano più stingenti di quelle, già severe, del Fondo monetario internazionale. La tesi secondo la quale il Mes sarebbe più generoso del Fmi in quanto la prima linea di credito è automatica, risulta nei fatti poco convincente perché se si adottano i parametri di sostenibilità del debito previsti dal trattato, in cui molti Paesi non rientrano, la presunta differenza con il Fmi viene meno.
Sull’azzardo morale andrebbe ricordato che la letteratura scientifica più influente ha raggiunto un consenso abbastanza ampio: insistere su questo aspetto per giustificare il punto di vista del creditore in realtà provoca danni.
Lo hanno affermato, ad esempio, due economisti non certo eretici come Olivier Blanchard e Larry Summers. Gli investitori, leggendo questo trattato, non possono non notare che molti Paesi non potranno rientrare nei parametri fissati per accedere alla prima linea di credito [quella che interviene in automatico, Ndr.]. La seconda linea di credito del Mes [cui avrebbe accesso l’Italia] è sottoposta, invece, a una serie di condizionalità complesse e che richiederanno tempo per essere implementate. Tempo durante il quale gli speculatori potrebbero organizzare i loro attacchi. In questi termini, definirei il Mes un meccanismo di “instabilità” piuttosto che di “stabilità”.

La riforma del Mes prevede che per la prima linea di credito vengano esplicitati i criteri di accesso al finanziamento, mentre prima questi vincoli erano sottintesi. Questo aspetto fa qualche differenza?

Cottarelli: Non vedo quali differenze possa creare aver reso espliciti questi parametri. Innanzitutto, se ci fosse una crisi in un Paese europeo, non sarebbe rilevante l’aver accesso alla prima delle due linee di credito del Mes, l’importante è, più in generale, avere l’accesso ai prestiti. Certo, sulla base di una certa condizionalità. Il fatto di aver chiarito i parametri non fa differenza nella distinzione fra Paesi virtuosi e non virtuosi, sono cose che già si sapevano.

Borri: Il Mes non è dotato di un proprio modello che determini quando il debito di un Paese è sostenibile o meno. L’aver introdotto questi criteri [3% di rapporto deficit/Pil; 60% di rapporto debito/Pil e altri] serve a delimitare le scelte e ridurre la discrezionalità nel giudizio [del board Mes]. Dall’altro lato, la discrezionalità è molto elevata nella tipologia di intervento del secondo tipo, quella a cui l’Italia avrebbe accesso. Io immagino che, pur di evitare un default del nostro Paese, che sarebbe un disastro per tutta l’Europa, le condizioni concesse sarebbero meno restrittive rispetto a quelle viste in Grecia. L’Italia ha una leva contrattuale molto più forte.
Dovremmo vedere il Mes, comunque, come un meccanismo che cerca di scoraggiare il più possibile l’avverarsi di eventi estremi. Non penso, visto che si è parlato molto delle possibili ripercussioni di una ristrutturazione del debito italiano sulle banche, che i nostri partner europei abbiano interesse a innescare una crisi bancaria nel nostro Paese. Peraltro, la riforma del Mes incrementa le dotazioni finanziarie per far fronte a questo tipo di crisi attraverso il Common Backstop.

Cesaratto: Non è un bene aver chiarito i criteri perché questo rende manifesta la distinzione fra Paesi di serie A e di serie B. Sicuramente l’Italia, stando così i parametri, rientrerebbe nella seconda categoria. Questo in qualche modo offre ai mercati una interpretazione preventiva dei rischi di sostenibilità del debito. In caso di crisi italiana il Mes garantirebbe ai mercati un minor rischio contagio perché interverrebbe direttamente a sostegno dei Paesi che rispettano i parametri.
Fra questi criteri quello palesemente più assurdo è relativo alla riduzione del debito pubblico sul Pil nella misura di un ventesimo l’anno della parte eccedente al 60%. Comporterebbe surplus primari talmente elevati da abbattere il Pil, creando drammi sociali enormi.

Brancaccio: Da questo punto di vista, il Mes utilizza criteri di sostenibilità del debito che in realtà non hanno alcuna base scientifica. Alcuni sono i vecchi parametri di Maastricht, ai quali si aggiunge un limite al saldo strutturale di bilancio pubblico. Prendiamo, ad esempio, quest’ultimo criterio. Esso dovrebbe essere calcolato al netto dell’andamento del ciclo economico; ciò che non viene detto è che questo calcolo viene effettuato attorno ad un equilibrio [una posizione economica “neutrale” Ndr.] che si presume essere associato ad un tasso di disoccupazione elevatissimo, superiore al 10% per l’Italia.
Sul piano scientifico si tratta di un assurdo. Io contesto il fatto che un meccanismo preposto per gestire una crisi valuti la sostenibilità del debito sulla base di criteri assolutamente anti-scientifici, che fanno danni.

Cosa ne pensa della scelta di introdurre le single-limb Cacs: sono utili solo a velocizzare le ristrutturazioni (come afferma il sito del Mes) o di fatto le renderebbero più probabili?

Cottarelli: Su questo punto, anche all’interno del mio Osservatorio sui conti pubblici, ci sono opinioni diverse su questo. Secondo il vicedirettore Giampaolo Galli le single-limb sarebbero un problema perché renderebbero meno costoso fare la ristrutturazione. Il mio parere è diverso: nel momento in cui si decide di fare la ristrutturazione non credo che avere una procedura di questo genere avrebbe un peso rilevante nell’aumentare le probabilità che questa si verifichi.

Borri: Le single-limb Cacs sicuramente rendono più agevoli le ristrutturazioni. La storia di tanti default, come quello dell’Argentina, mostra che il vero rischio è che questi processi avvengano in modo disordinato. Avere una ristrutturazione ordinata è un vantaggio. E’ difficile dire, invece, se le single-limb Cacs rendano la ristrutturazione più probabile

Cesaratto: Queste clausole dovrebbero impedire ai fondi avvoltoio di bloccare le ristrutturazioni di alcune emissioni di titoli, con l’obiettivo di strappare migliori condizioni attraverso battaglie legali. Dall’altro lato, si dice che ridurre le chance di poter porre un veto alle ristrutturazioni possa spaventare i mercati, i quali richiederebbero premi al rischio più elevati.

Brancaccio: Non sono contrario, in linea di principio, alla ristrutturazione del debito e a far pagare in alcuni casi anche i creditori. Si può anche contemplare che questa procedura di voto, quella delle single-limb Cacs, faciliti la ristrutturazione.
Per far funzionare questo meccanismo, però, è necessario che il prestatore di ultima istanza, la banca centrale, agisca immediatamente. E non è assolutamente il caso che stiamo contemplando.

Per gli interessi italiani è preferibile bloccare la ratifica di questa riforma e tenere il Mes com’è, o approvare le modifiche?

Cottarelli: Se la scelta su questa riforma del Mes fosse prendere o lasciare io prenderei. Però credo ci sia lo spazio per avere un miglioramento della riforma. In particolare rendere il Mes un’istituzione comunitaria. E poi legarlo a patti chiari sulle altre cose, per esempio l’assicurazione europea sui depositi bancari.

Borri: Penso che la riforma del Mes vada ratificata. Primo, perché un blocco darebbe un ulteriore segno di inaffidabilità. In secondo luogo, supponendo di voler negoziare un Mes maggiormente favorevole che cosa pensiamo di proporre agli altri Paesi? Secondo me, un aspetto migliorativo per noi sarebbe mettere in comune a livello europeo tutti i debiti pubblici nazionali. Ma è irrealistico pensare che i nostri partner lo accettino.
In alternativa, non saprei che cosa potremmo chiedere, al di là di questo Mes che comunque si pone nella direzione di aiutare i Paesi che potrebbero finire in difficoltà. E’ vero, ancora paghiamo uno spread che riflette una pur piccola probabilità di default italiano e il Mes non elimina completamente la possibilità di una ristrutturazione. Senza di esso, però, è lecito immaginare che lo spread sarebbe ancora più alto.

Cesaratto: Se volessi dare un segnale di contrarietà alla logica del Mes, non ratificherei la riforma. Anche se quest’ultima, in sé, non cambia di molto le cose.

Brancaccio: Facciamo un’ipotesi netta. Se il Mes non esistesse ci libereremmo di una serie di ipocrisie. Nel momento in cui sopraggiungesse una crisi ci si dovrebbe interrogare su una domanda-chiave: “Dobbiamo salvare l’euro?”. A quel punto sarebbe tutto più limpido perché la questione ricadrebbe, com’è giusto che sia, sulle istituzioni europee e in particolare sull’istituzione monetaria centrale, la Bce. Ciò definirebbe con maggiore chiarezza le responsabilità: se alcuni Paesi si dovessero opporre a un intervento diretto della Bce essi si assumerebbero le responsabilità di aver fatto deflagrare l’euro.
Penso che manifestare la propria contrarietà al Mes anche attraverso una mancata ratifica della sua riforma possa essere un segnale utile a riavviare una discussione sugli aspetti fondamentali su cui si regge l’Unione monetaria europea, e che in realtà anziché rafforzarla la rendono ancor più fragile e contraddittoria.

Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto (Rome, 1955) studied at Sapienza, where he graduated under the direction of Garegnani in 1981 and received his doctorate in 1988. He obtained a Master's degree in Manchester in 1986. He worked as a researcher at CNR where he was of Innovation Economics. In 1992 he became a researcher at La Sapienza, and then associate professor in Siena where he teaches Economic Policy and Development Economics.

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