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Su socialismo e organizzazione del lavoro

Summary:
Su invito di Meri Lucii, che ha scritto qualche riga di introduzione, pubblichiamo questo breve scritto della cara Federica Roà, che ci ha lasciato da qualche anno, sui problemi del socialismo e l’organizzazione del lavoro, una riflessione che è rimasta purtroppo solo abbozzata, ma è nondimeno una traccia di lavoro. (Sul tema del socialismo si vedano anche i seguenti post: uno e due) Questo scritto di Federica Roà* "Sulla organizzazione del lavoro nelle economie Socialiste e Capitaliste", presentato nel 2010 al Convegno “Sraffa's Production of Commodities by Means of Commodities 1960-2010", è centrato su una questione che possiamo così sintetizzare: in una economia organizzata in modo non capitalista, in cui è quindi assente la minaccia della disoccupazione, come è possibile indurre

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Su invito di Meri Lucii, che ha scritto qualche riga di introduzione, pubblichiamo questo breve scritto della cara Federica Roà, che ci ha lasciato da qualche anno, sui problemi del socialismo e l’organizzazione del lavoro, una riflessione che è rimasta purtroppo solo abbozzata, ma è nondimeno una traccia di lavoro. 
(Sul tema del socialismo si vedano anche i seguenti post: uno e due)



Questo scritto di Federica Roà* "Sulla organizzazione del lavoro nelle economie Socialiste e Capitaliste", presentato nel 2010 al Convegno “Sraffa's Production of Commodities by Means of Commodities 1960-2010", è centrato su una questione che possiamo così sintetizzare: in una economia organizzata in modo non capitalista, in cui è quindi assente la minaccia della disoccupazione, come è possibile indurre le persone a svolgere lavori faticosi, ripetitivi, noiosi, che comportano condizioni spiacevoli? Lavori che costituiscono tutt'ora una buona parte delle attività lavorative delle economie industrialmente avanzate.

Pensiamo che lo scritto possa essere di interesse soprattutto per chi, formatosi negli ultimi decenni, ha avuto l'esistente come unico orizzonte. E magari stimolare lo studio e la ricerca in campi poco esplorati. Ad esempio cercare di dare concretezza, attraverso una indagine in una o più imprese che usano tecnologie avanzate, all'idea ricorrente per la quale saranno le macchine, quando usate per fini diversi dal profitto, a liberare l'essere umano da lavori degradanti.

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*Federica Roà è stata consulente dell'ISMO, una società di Milano che si occupa di Organizzazione. In quello che sarebbe stato l'ultimo periodo della sua vita, si era si era interessata ai problemi del lavoro nell'Unione Sovietica nell'ambito di una collaborazione con il Professor Pierangelo Garegnani dell'Università degli Studi Roma Tre.


Sulla organizzazione del lavoro nelle economie Socialiste e Capitaliste

Federica  Roà


 Questo scritto è un breve resoconto del problema che la piena occupazione può creare per la disciplina nel lavoro e produttività ed è basato sulle esperienze del secolo scorso nel socialismo reale e nel capitalismo (sezioni I e II). La conclusione cui arriviamo è che ci sono lavori che nessuno farebbe se non costretto dalla necessità, che chiamiamo spiacevoli (sezione III), e un sistema sociale che intende perseguire la piena occupazione e giustizia sociale dovrebbe prendere in considerazione e cercare una soluzione a questa importante questione (sezione IV).


I. L'esperienza Sovietica

1. Nel 1961 Nikita Kruscev presentò un ampio Programma del Partito per la transizione al comunismo in una sola generazione. Nel Programma venivano fatte agli operai russi promesse precise e verificabili: il loro salario reale sarebbe raddoppiato in 10 anni e cresciuto di 3,5 volte in 20 anni superando così ampiamente il salario degli operai statunitensi. Nello stesso tempo le condizioni di lavoro, cioè la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, sarebbero diventate le migliori del mondo. Anche l'organizzazione del lavoro sarebbe in qualche modo migliorata: la durata della settimana lavorativa sarebbe passata da 40 a 36 ore (30 per i minatori), mentre la vita lavorativa sarebbe stata compresa tra i 30 e i 40 anni. Al fine di raggiungere questi obiettivi, si chiedeva gli operai dell'industria un sostanziale miglioramento della produttività.

2. Nell'economia sovietica era stato difficile ottenere soddisfacenti livelli di produttività del lavoro anche nel periodo dell'industrializzazione forzata (che iniziò nel 1928 con il primo piano quinquennale) e quasi-militarizzazione delle officine. Con l'economia in rapida crescita il tasso di rotazione continuava ad aumentare perché i lavoratori lasciavano facilmente il posto di lavoro per cercarne uno migliore. Per un periodo Stalin aveva persino reso illegale il cambiamento di lavoro per alcune produzioni vitali (varie leggi furono emanate dal 1930), ma la difficoltà a mantenere i lavoratori in settori quali le miniere, le costruzioni, ferro e acciaio, dove il lavoro era più duro anche se meglio pagato, rimase acuta. Si sviluppò così la tendenza da parte dei manager ad attrarre e mantenere i lavoratori allentando i ritmi di lavoro e la disciplina (tollerando ad esempio l'assenteismo) per poter raggiungere gli obiettivi del Piano. Già nella prima metà degli anni 30 questa modalità era diventata strutturale e riguardava praticamente ogni impresa e ogni ramo di attività.
         Le conseguenze di questo stato di cose si manifestarono con evidenza agli inizi degli anni 70 con il passaggio dell'economia sovietica da una crescita estensiva ad una intensiva. L'aumento della produzione che con la crescita estensiva era stato il risultato del passaggio da attività meno produttive (agricoltura) ad attività più produttive (produzione industriale), doveva ora risultare dall'aumento del prodotto per lavoratore e per ottenere questo era di fondamentale importanza avere una forza lavoro disciplinata.

3. Le riforme via via introdotte nel sistema sovietico per migliorare la produttività furono misure tipiche delle economie capitaliste. Consistettero essenzialmente nella introduzione di varie forme di incentivi al lavoro che non incisero sulla produttività e che lasciarono sostanzialmente immutato il conflitto che colpiva il cuore del sistema sovietico: la promessa fatta ai lavoratori di una vita migliore e la fatica che dovevano sopportare per la gran parte di essa.
            Voci isolate cercarono di attirare l'attenzione su ciò che accadeva nei posti di lavoro. Rudolph Bahro, un intellettuale socialista della DDR, nel suo libro Die Alternative del 1977, denunciò apertamente la mancanza di disciplina del lavoro nella DDR e affermò la necessità di affrontare il problema per salvare il comunismo. Pose una questione a nostro parere cruciale: come è possibile avere efficienza in una economia che manca degli strumenti di cui si serve il capitalismo - disoccupazione e competizione sociale- mentre il lavoro nelle fabbriche rimane frustrante e faticoso? Bahro fu imprigionato dopo la pubblicazione di Die Alternative e anche solo questo fatto ci fa capire quanto fosse difficile prendere in considerazione questo problema.      
         Da posizioni di comando, solo Andropov denunciò apertamente quanto fosse non realistica la richiesta dei lavoratori di livelli più alti di consumo, data la scarsa disciplina sul lavoro e la resistenza ad aumentare i ritmi di produzione nelle fabbriche sovietiche. Come Presidente dell'Urss, Andropov ebbe però, come è noto, una vita breve (1983-1985).
         Gorbaciov prese infine in considerazione la possibilità di usare la disoccupazione per aumentare la produttività dimostrando anche così che l'esperienza sovietica era giunta al termine.

II. L'esperienza delle economie capitaliste

1. Nell'intera storia del capitalismo c'è stato, come è noto, un solo periodo in cui i lavoratori hanno sperimentato piena occupazione del lavoro e alti salari: il periodo della così detta "età dell'oro" (1950-1973). E' altresì noto che "l'età dell'oro" si concluse con una lunga e travagliata crisi e il ritorno alla disoccupazione di massa. Qui vogliamo richiamare l'attenzione sugli anni che precedettero quella crisi, caratterizzati da un crescente sentimento di disaffezione verso il lavoro industriale da parte soprattutto delle giovani generazioni, che si manifestò sia nell'economia statunitense che nelle economie europee capitaliste industrialmente avanzate. I fatti sono stati ampiamente riportati dalla pubblicistica e dalla letteratura accademica dell'epoca.

Iniziamo con le parole riprese da un discorso dell'allora Vice Presidente delle Relazioni Industriali alla Ford, pronunciato nel novembre del 1969 in un incontro con il personale direttivo:

"dal 1960 al 1968 il tasso orario di assenteismo  dei nostri dipendenti  è più che raddoppiato... il tasso di  rotazione è salito di due volte e mezzo... Questo non riguarda solo la Ford... I più giovani sono sempre più riluttanti ad accettare le condizioni di fabbrica... ad accettare una  ferrea e autoritaria disciplina sul luogo di lavoro" (S. Aronowitz, 1974, pp. 34-35, ns traduzione)

La disaffezione nei confronti del lavoro industriale è il tema affrontato dalla ricerca (Work in America) commissionata nel 1971 dall'Amministrazione Nixon a un gruppo di esperti. Citando dalla ricerca:

"Un numero rilevante di lavoratori americani sono   insoddisfatti della qualità della loro vita lavorativa.  Lavori noiosi ripetitivi apparentemente senza senso che offrono pochi stimoli o  autonomia,  stanno causando scontento tra i lavoratori a tutti i livelli occupazionali.  Il generale miglioramento della loro istruzione e condizione economica, ha posto molti lavoratori Americani nella condizione per la quale avere un lavoro interessante è altrettanto importante quanto avere un lavoro ben pagato. La paga deve permettere un "adeguato" tenore di vita ed essere percepita come equa, ma non condurrà ad un lavoro (o una vita) soddisfacente" (Work in America, 1973, pp. xv-xvi, ns traduzione)

L'influente sociologo americano Daniel Bell aggiungeva un tassello al mosaico attribuendo alla "rivoluzione keynesiana" e in particolare al suo voler perseguire piena occupazione e alti consumi, la responsabilità di aver causato:

"una potente e irreversibile rivoluzione nelle aspettative sociali" (D. Bell, 1976, p.239, ns traduzione)

 2. Il Business temeva di perdere il controllo sulla forza lavoro. Citando ancora dal discorso del Vice Presidente delle Relazioni Industriali della Ford:

"nelle fabbriche l'ordine viene mantenuto con crescente difficoltà" (S. Aronowitz, 1974, p.36 ns  traduzione)

         I Sindacati si trovavano come intrappolati tra chi (Governo e Business) attribuiva loro la responsabilità di non essere in grado di controllare il comportamento dei lavoratori e la propria base che metteva in discussione la loro lealtà perché non si sentiva rappresentata nei nuovi bisogni. Come scrisse un importante giornalista americano (Murray Kempton, 1973), i sindacati avevano probabilmente capito che intraprendere una lotta per cambiare l'organizzazione del lavoro avrebbe significato dare l'avvio ad un assalto rivoluzionario.
         Come scrisse Bell, si stava spezzando l'equilibrio raggiunto tra frustrazione al lavoro e gratificazione nei consumi. Dal passo che segue, ripreso da un resoconto di André Gorz, si intuisce che la stessa cosa stava accadendo in altre economie occidentali industrialmente avanzate:

"In un classico sciopero nelle fabbriche Jaeger di Caen nel 1972, per esempio, le richieste iniziali si focalizzarono sul diritto delle donne lavoratrici a decidere la velocità del lavoro. Ma quando fu loro provvisoriamente garantito di lavorare ‘alla loro velocità naturale’, esse scoprirono rapidamente che ‘la nostra naturale velocità è di non lavorare affatto, almeno nelle esistenti condizioni tecnico sociali". La stessa cosa accadde alla Fiat di Torino" (A. Gorz, 1982, p.50, ns traduzione)

III. Il lavoro spiacevole        
        
1. L'ambivalenza del lavoro in quanto fonte di soddisfazione ma insieme anche condanna per l'essere umano, è stata da sempre oggetto di riflessione. Per un breve excursus sulle considerazioni svolte al riguardo nel XX secolo, possiamo partire da Freud che in Civilization and its discontents (1929) considerò il lavoro come una delle migliori difese dalla sofferenza esistenziale ritenendo che il lavoro comune accessibile a tutti potesse diventare, secondo il saggio consiglio di Voltaire, il proprio giardino da coltivare. Se questo non accadeva era da attribuire secondo Freud alla naturale avversione al lavoro degli esseri umani dalla quale derivano i più gravi problemi sociali.

Marcuse in Eros and civilization: a philosophical inquiry into Freud (1955) riprese la contraddizione sollevata da Freud e la spiegò con il fatto che una gran parte del lavoro moderno non dà per sua natura opportunità di coinvolgimento; da questo tipo di lavoro, egli dice, ci si dovrebbe e potrebbe liberare usando la tecnologia non a vantaggio del profitto, bensì per liberare l'essere umano dal lavoro gravoso e mortificante.

Il lavoro moderno di cui parla Marcuse richiama le note riflessioni di Simone Weil (1934-1935) sulla brutalità del lavoro di fabbrica, di cui fece esperienza alla Renault negli anni 30 e anche la visione pessimista espressa da Hanna Arendt (2004), un'altra importante filosofa, sul lavoro nella società moderna. Per i tempi a noi più vicini, uno studio del 1977 del collettivo francese Adret, la cui figura di spicco è il fisico Loup Verlet, tenta una classificazione delle attività lavorative di una economia moderna e studia soluzioni per ridurre quelle penose.

Con questo breve excursus intendiamo richiamare l'attenzione su una questione attualmente sommersa dalla disoccupazione di massa, che possiamo esprimere così: il problema che abbiamo visto manifestarsi con la piena occupazione non riguarda tanto il lavoro genericamente inteso, quanto un certo tipo di lavoro che possiamo
Chiamare spiacevole. Con la sicurezza che deriva dalla piena occupazione si manifestano bisogni che vanno al di là della semplice sussistenza e il bisogno di fare un lavoro sensato e di trovare soddisfazione nel farlo è certamente tra questi.

2. Nelle economie industrialmente avanzate, quelle cui ci stiamo riferendo, il lavoro che abbiamo chiamato spiacevole, ci sembra ben definito dal filosofo Walzer in un suo libro degli anni ‘80.

"...occupazioni che sono come pene detentive, lavoro che le persone non cercano e non sceglierebbero se avessero alternative anche minimamente attraenti. Questo genere di lavoro è un bene negativo e di solito porta con sè altri beni negativi: povertà, insicurezza, cattiva salute, danni fisici, disonore e umiliazione. E tuttavia è lavoro socialmente necessario; necessita di essere fatto, e ciò significa che bisogna trovare qualcuno lo faccia" (M. Walzer, Spheres of Justice,1983, p. 165, ns traduzione)

Alla fine dell'800 un grande scrittore aveva usato parole non molto diverse:

"Tutto il lavoro non intellettuale, monotono, noioso, tutto il lavoro che riguarda cose terribili e implica condizioni spiacevoli, deve essere fatto dalle macchine. Le macchine devono lavorare per noi nelle miniere di carbone, nei servizi igienici, essere fuochista dei battelli, pulire le strade, portare messaggi nelle giornate umide e fare qualunque cosa sia noiosa e penosa" (O.Wilde, The soul of man under socialism, 1891, in M. Walzer, 1983, p. 167, ns traduzione)

E' importante notare che ad essere messi in evidenza sono caratteri intrinseci a determinate attività lavorative, caratteri cioè indipendenti dal contesto sociale in cui il lavoro viene svolto e indipendenti dalla sua organizzazione, vale a dire dalla spiacevolezza che può derivare da turni, orari, carico di lavoro. Una pubblicazione del Bureau of Labour Statistics (Occupational Outlook Handbook), fornisce una dettagliata descrizione di centinaia e centinaia di diversi tipi di lavoro censiti nell'economia statunitense, mettendo così in luce come una parte consistente degli occupati sia ancora impiegata in lavori da cui chiunque, potendo, si terrebbe comprensibilmente lontano.

3. La ricerca di soluzioni da parte di coloro che si sono posti il problema di migliorare le condizioni degli occupati in lavori spiacevoli, parte da lontano. A pochi anni di distanza dalla rivoluzione francese, nel pianificare la sua società utopica, Charles Fourier temeva che una volta garantito un dignitoso train de vie, le persone si sarebbero date all'ozio perché la produzione moderna era troppo ripugnante. E aveva immaginato gratificazioni gastronomiche e sessuali per rendere la fatica più attraente. In ogni caso non erano previste più di due ore lavorative per giorno.
         Venendo a tempi a noi più vicini, gli autori della ricerca Work in America (1973) ordinata, come abbiamo detto in precedenza, da Nixon, pensavano che l'impegno dei lavoratori all'interno del capitalismo keynesiano potesse essere riguadagnato proponendo un nuovo patto tra capitale e lavoro; nuovo perché avrebbe dovuto prevedere un utilizzo di tutti gli strumenti utili a rendere il lavoro più interessante. In quegli stessi anni il collettivo francese Adret (1977) che abbiamo già ricordato, propone, tra le altre cose, una riorganizzare del lavoro industriale che richiama la corrente "umanesimo nel lavoro" fondata negli anni 40 dal marxista Georges Friedmann (1968). Non si trattava in questo caso di rendere il lavoro più interessante, bensì di passare da un processo produttivo in cui il lavoratore è strumento delle macchine, a quello in cui ne ha invece il controllo.
         Queste tematiche sono state riprese anche di recente (2006) in un seminario di cui ha fornito un resoconto Le Monde Diplomatique (Halimi 2006) organizzato per esplorare a cosa potrebbe somigliare la società ideale se il capitalismo non esistesse più. Il tema discusso è stato il modello dell'economia partecipativa per il quale, all'interno di ogni attività lavorativa, l'insieme dei compiti dovrebbe essere ridefinito in modo tale da attribuire a tutti mansioni direttive ed esecutive; ognuno sarebbe quindi chiamato a svolgere in parte ogni tipo di attività che riguarda il settore in cui è occupato. Una proposta che richiama il sistema di rotazione sperimentato nella Cina di Mao.
         Ciò che a noi qui interessa, è illustrare anche la nostra proposta.
         A nostro parere per ottenere impegno e disciplina nello svolgimento del lavoro spiacevole, il lavoro dovrebbe essere riorganizzato in modo radicale. Pensiamo in particolare ad un patto in cui in cambio di una stretta disciplina sul lavoro, sarebbe assicurata una drastica riduzione della vita lavorativa da occupare nel lavoro spiacevole e un vitalizio per il resto della vita. Il lavoro spiacevole dovrebbe cioè essere trattato alla stregua di   un servizio militare da prestare però volontariamente.

IV. Conclusioni

Abbiamo mostrato l'insofferenza al lavoro in due contesti sociali molto diversi (socialista e capitalista) accomunati dalla condizione di piena occupazione: caso del tutto eccezionale nella storia del capitalismo e invece una delle ragioni per cui molti hanno visto nel socialismo la possibilità di una vita non minacciata da bisogni elementari. A questa insofferenza le economie capitaliste hanno reagito con lo strumento ben noto della disoccupazione nella quale siamo tutt'ora immersi. Nell'Unione Sovietica invece, la bassa produttività del lavoro e il crollo dell'economia, è stato in buona misura, noi riteniamo, la causa della crisi e crollo del sistema sovietico che, da un lato non poteva certo contare sulla disoccupazione senza snaturarsi, e dall'altro non aveva elaborato soluzioni utili per agire in quel contesto.   
         La nostra idea è che non sia il lavoro ad essere rifiutato, ma un certo tipo di lavoro che abbiamo chiamato spiacevole Risolvere il problema del lavoro spiacevole socialmente necessario riteniamo sia di importanza cruciale per una economia che intenda perseguire piena occupazione del lavoro e giustizia sociale. Abbiamo indicato una possibile soluzione nel modello del servizio militare volontario.

Bibliografia

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III. Il lavoro spiacevole
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H. Arendt, Vita Activa: la condizione umana (1958), Milano, Tascabili Bompiani, Milano, 2004
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S. Freud, Civilization and its discontents (1929), W.W. Norton, New York- Londono, 1989
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 S.Weil, Diario di fabbrica (1934-1935), in La condizione operaia, SE, Milano, 1994, pp. 15-119
                                                                                                                                   Roma, 4 dicembre 2010
Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto (Rome, 1955) studied at Sapienza, where he graduated under the direction of Garegnani in 1981 and received his doctorate in 1988. He obtained a Master's degree in Manchester in 1986. He worked as a researcher at CNR where he was of Innovation Economics. In 1992 he became a researcher at La Sapienza, and then associate professor in Siena where he teaches Economic Policy and Development Economics.

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