Qui di seguito, autorizzati dall'autore che ringraziamo, il testo della relazione del prof. Gianpasquale Santomassimo (già docente di storia presso l'Università di Siena) per "Patria e Costituzione".Roma, 8 settembre 2018Ci troviamo probabilmente all’interno di una vera e propria rivolta popolare in atto nel continente. Che si esprime nelle forme pacifiche di un sommovimento elettorale e che tende ad assumere, per la disastrosa politica delle sinistre tradizionali, una forte connotazione di destra, dal punto di vista politico e culturale. E’ un esito che non giunge per la verità inatteso, che viene dopo un quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive credibili per
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Roma, 8 settembre 2018
Ci troviamo probabilmente all’interno di una vera e propria rivolta
popolare in atto nel continente. Che si esprime nelle forme pacifiche di
un sommovimento elettorale e che tende ad assumere, per la disastrosa
politica delle sinistre tradizionali, una forte connotazione di destra,
dal punto di vista politico e culturale.
E’ un esito che non giunge
per la verità inatteso, che viene dopo un quarto di secolo di
impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato
sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive
credibili per le generazioni più giovani. Assistiamo a una gigantesca
sostituzione di rappresentanza sociale, che vede i ceti popolari cercare
spesso a destra protezione e sicurezza (sicurezza che è una dimensione
globale, che significa in primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro,
sicurezza sul terreno della salute e dell’assistenza, e che solo in
ultima analisi significa anche tutela dell’ordine pubblico). Una
inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita,
raffigurato plasticamente da tutte le analisi del voto degli ultimi
anni, che hanno contrapposto benestanti soddisfatti dei centri cittadini
a popolo delle periferie che esprimeva un bisogno al tempo stesso di
ribellione e di protezione. E lasciando alla sinistra la rappresentanza
di un ceto medio più o meno riflessivo, fatto di benestanti soddisfatti
degli esiti provvisori della globalizzazione e dei diritti civili
acquisiti.
Ma quel segno prevalente di destra non è univoco: dove
esiste una nuova sinistra degna di questo nome, essa prende le distanze
dai miti dell’ultimo trentennio e partecipa in forma autonoma alla lotta
contro l’establishment europeo. Anche dalla sua capacità di incidere
dipenderanno gli esiti finali di questo processo.
La sinistra italiana purtroppo non fa parte di questo quadro.
E invece avremmo bisogno di una sinistra che sappia parlare al popolo,
di intenderne quantomeno i problemi. Potremmo anche parlare di
populismo, senza rinchiuderci in dotti seminari su Laclau. Populismo e
non plebeismo o peggio ancora, come si dice oggi, “gentismo”,
collegandoci invece alla tradizione del movimento operaio italiano.
Ha senso proporsi di riorganizzare la sinistra solo se si ha
l’obiettivo di contendere alle destre il consenso popolare, non
schierarsi dalla parte delle oligarchie o rinserrarsi nel presidio del
3-4 per cento a cui si riduce da un decennio la cosiddetta “sinistra
radicale” nel suo complesso, del tutto incapace di parlare alla società
italiana.
Come siamo arrivati a questo? Perché un paese che
aveva prodotto una delle sinistre più agguerrite del continente si è
ridotto a elaborare il lutto dell’assenza e dell’irrilevanza?
Gli
storici dell’immediato futuro dovranno ripercorrere senza sconti la
parabola dolorosa che porta dall’eredità di Gramsci e Matteotti fino a
Benetton. Si può e si deve tornare indietro, senza eccedere, alla
ricerca dei limiti di una tradizione, individuando però i momenti e i
nodi decisivi, che vedono probabilmente la grande mutazione della
rivoluzione individualistica degli anni 80 come tornante decisivo di una
storia nuova nella quale siamo stati immersi fino ad ora. Ma questo
vale per tutto l’Occidente; per il nostro paese la soluzione di
continuità avviene all’inizio degli anni 90. Oggi comprendiamo bene che
accanto alle tappe cruciali dello smantellamento del sistema politico
per via giudiziaria e dell’abbandono della civiltà del proporzionale per
via referendaria bisogna mettere a fuoco anche e soprattutto
l’accettazione del “vincolo esterno” dei trattati europei, che
interviene proprio negli ultimi sussulti di un sistema politico
destinato a venire travolto ben presto dagli eventi.
NODO EUROPEO
Nell’arco della sua storia l’ideale europeistico ha conseguito
risultati importantissimi, che non andranno lasciati cadere nel
progressivo disfacimento dell’Unione: si pensi solo all’armonizzazione
dei principi giuridici, all’abolizione della pena di morte che continua
imperterrita a restare in vigore in molti Stati degli Usa; si pensi alle
grandi conquiste sul terreno dei diritti civili e individuali, che
hanno rappresentato del resto la frontiera pressoché unica della
sinistra occidentale.
Ma da Maastricht in poi il potere delle élites
europee ha proceduto con spietata determinazione a smantellare le
fondamenta dello Stato Sociale europeo, vale a dire la creazione più
alta che i popoli europei avevano conseguito nella seconda metà del
Novecento, distruggendo quindi quello che era ormai l’elemento
caratterizzante della stessa civiltà europea.
Era parte di un
lucidissimo ed esplicito progetto volto a impedire qualunque orizzonte
socialista nel continente, e anche a smantellare i residui del
compromesso keynesiano dell'"età dell'oro" dell'Occidente.
Il caso italiano è esemplare da questo punto di vista.
Fragili élites, circoli del bridge, gruppi di potere che non sarebbero
mai stati in grado di conquistare egemonia per via democratica hanno
usato spregiudicatamente il «vincolo esterno» per conseguire quei
risultati che i rapporti di forza in passato negavano.
L'accettazione di questo vincolo da parte delle classi dirigenti
italiane ha distrutto un meccanismo di sviluppo che si era basato sul
sostegno delle politiche statali, e ha condannato il nostro paese a una
stagnazione che appare senza fine. Un comportamento contrario
all’interesse nazionale.
PATRIOTTISMO
Breve digressione
sul patriottismo. Il tema ha una certa attualità, che però va
circoscritta al suo significato politico, che va contrapposto alle
fantasie asseverative sulla fine dello Stato-nazione circolate a lungo a
sinistra.
Cito da Silvio Lanaro, Patria. Circumnavigazione di
un'idea controversa, tra le poche cose sensate prodotte dal lungo
dibattito italiano attorno a questi temi, che scriveva: "la patria è
l'unico luogo di aggregazione morale, civile e spirituale in grado di
garantire la pluralità delle esperienze esistenziali di cui oggi possono
godere gli uomini e le donne in questa tarda ora del secondo millennio,
permettendo loro di affrontare i problemi della vita di relazione,
senza l'angosciosa insicurezza del viandante e dell'esule".
Di
fronte a un internazionalismo che vede in azione ormai solo
fondamentalismi religiosi o finanziari, è inevitabile la ricerca di una
dimensione di «protezione e rassicurazione esistenziale», di «affinità,
consonanze, parentele ideali e morali», parte di una
«autorappresentazione senza la quale nessun gruppo sociale è in grado di
vivere e sopravvivere».
Ecco, diciamo pure che l'amor di patria, in
sobria dose, è un sentimento necessario per la sopravvivenza dei
singoli e delle collettività, ma non credo possa diventare elemento
centrale di una proposta politica. Il recupero di sovranità è per noi
indispensabile perché è l'unica condizione che può consentire - con
fatica - di riattivare il meccanismo di sviluppo che i termini del
"vincolo esterno" intesero tagliare alla radice, impedendo l'intervento
statale e condannando l'Italia a una lunga stagnazione trentennale.
Però va ricordato che a suo tempo criticammo con ragione il ciampismo
storiografico, e l'esaltazione patriottarda di un Risorgimento
mummificato, corrispettivo alla cessione di sovranità nei confronti
dell'Europa di Maastricht: le due cose si tenevano assieme, anzi era
proprio la sudditanza perseguita che esigeva l’enfasi su un patriottismo
esteriore. Il meccanismo può anche ripetersi in futuro.
E senza
dimenticare mai la tradizione francese, che insegna come il patriottismo
possa diventare l’”ultimo rifugio” di comportamenti assai discutibili.
Ma qui ed ora la discussione è concretissima, non è ideologica o
simbolica: o recuperi sovranità e ti riappropri degli strumenti per fare
politica autonoma oppure obbedisci alla Commissione di Bruxelles.
MA COSÌ SI RITORNA AGLI STATI NAZIONALI!
E' una delle affermazioni ricorrenti nel calderone di frasi fatte di
cui si sostanzia la retorica europeista. Si tratta con ogni evidenza di
una illusione ottica, perché dagli stati nazionali non siamo mai usciti,
ed è anzi l'unica realtà che sorregge la costruzione europea, fondata
sull'equilibrio di interessi nazionali più o meno forti, dove i più
forti prevalgono e i più deboli si lasciano soverchiare, magari
organizzando per i sudditi simpatiche gite a Ventotene.
Anche un
ipotetico "Superstato" europeo risponderebbe agli stessi rapporti di
forza, lasciando all'inutile Assemblea il gusto meschino di deliberare
sulla curvatura dei cetrioli e sull'estetica dei pacchetti di sigarette.
Il vero "sovranismo" che bisogna temere è quello di un Superstato
che spadroneggi senza più limiti sulla vita sempre più precaria dei
sudditi. Ai quali non rimane altra risorsa che difendere quanto è
possibile della propria sovranità costituzionale.
Lo spazio
nazionale – da intendersi come non unico, non esclusivo - è
inevitabilmente il terreno di lotta irrinunciabile per qualunque
politica che voglia modificare lo stato di cose esistente perché, ci
piaccia o meno, gli assetti europei si definiscono attraverso la
composizione di un equilibrio conflittuale tra interessi nazionali.
Interesse nazionale – termine scomparso dal lessico della sinistra.
Tutti possono constatare che l'Europa così come è stata costruita dai
primi anni '90 ad oggi non è riformabile, e che si è tradotta in una
regressione sul piano economico e sociale per il nostro e per altri
popoli europei.
Il che non significa necessariamente smantellare
tutto, ma tornare – permettetemi una citazione - a quello slancio “di
creatività e anche di ‘sana disunione’: cioè dare più indipendenza, dare
più libertà ai Paesi dell’Unione“ di cui parlava qualche tempo fa un
osservatore argentino che risiede in Vaticano, e che sa che la grandezza
della civiltà europea si è costruita attraverso il rispetto delle
diversità (la “sana disunione”) e di un equilibrio tra vocazioni e
interessi che possono confliggere.
La grandezza della civiltà
europea, il segreto che ha consentito ad essa di raggiungere traguardi
insperabili sulla base della sua modesta consistenza territoriale, sta
proprio nell’assenza di un centro dominante, nella capacità di praticare
una politica di equilibrio sia pure conflittuale.
Non a caso le
utopie di una Europa unificata si svilupparono attorno ai tentativi di
assoggettamento militare, esperiti con ideologie e contraccolpi molto
diversi, da Napoleone e da Hitler.
Nella demonizzazione degli
Stati nazionali è divenuto luogo comune imputare ad essi il fenomeno
delle guerre, come se guerre non ve ne fossero state prima della loro
affermazione ottocentesca. Si dimentica quella che gli storici hanno
chiamato la “pace dei cento anni”, dal 1814/15 al 1914, periodo nel
quale l’Europa conobbe solo piccole campagne militari e una breve guerra
tra Francia e Prussia nel 1870. Un secolo nel quale la guerra più
sanguinosa fu la guerra civile americana coi suoi 600.000 morti, cifra
che appare quasi irrisoria a fronte dei milioni di vittime del secolo
successivo.
La catastrofe delle guerre mondiali avvenne proprio
dalla volontà di forzare l’equilibrio tra stati nazionali da parte di
imperalismi in lotta.
Una velleità che continua ad operare
sottotraccia anche dopo Maastricht, e che ha prodotto recentemente i
disastri della Libia e della Siria.
La forzatura degli Stati
Uniti d'Europa, che nessuno veramente vuole tranne pochi fanatici (ma
molto influenti nell'establishment), va evitata. Che si proponga di
inaugurarla con l'esercito europeo è fattore di allarme e provocherà un
solco sempre più marcato nei sentimenti popolari, già oggi largamente
estranei alla retorica europeista delle élites.
Gli elementi
"sovranazionali" presenti oggi nella nostra vita (dogane, frontiere, e
mettiamoci pure l'Erasmus tanto caro alla retorica di molti) sono frutto
di accordi fra stati. Sono sempre revocabili, e negli ultimi anni gli
accordi di Schenghen sono stati sospesi da molti paesi dell'UE. Diverso
il discorso sulla moneta, che ha una costrizione molto più stringente e
che non prevede vie di uscita non traumatiche (chiedere ai greci al
riguardo).
In Italia protagonista culturale della sudditanza è
stato il mondo azionista, vero o sedicente tale, che replicava i suoi
antichi miti sull'arretratezza congenita di un'Italia levantina, che non
aveva avuto la Riforma protestante, e che senza la briglia europea
rischiava di scivolare nel Mediterraneo o in Africa. L’Europa che doveva
insegnare ai giovani la durezza del vivere come teorizzava
Padoa-Schioppa.
Poi si sono aggiunti i postcomunisti, ed è stato l’apporto decisivo.
L'europeismo ha fornito una ideologia sostitutiva alla sinistra, di
governo come di opposizione, che ha trovato una utopia letale da
abbracciare dopo il fallimento di tutte le precedenti, con lo stesso
spirito acritico (e un po' trinariciuto, diciamolo pure) del passato.
Non solo ideologia, ma anche religione civile prima e religione profana
in seguito.
Oggi assistiamo alla crisi della sinistra liberal
nelle sue varie declinazioni (in tutto l’Occidente, ma particolarmente
in Italia). Tanto la sinistra moderata quanto la cosiddetta “sinistra
radicale”, che è stata l’ala estrema della stessa ideologia,
intransigente nella rivendicazione dei diritti civili ma distratta nella
difesa dei diritti sociali, e che si è riconosciuta in un
“cosmopolitismo di maniera” e in un internazionalismo frainteso, che
sembra ignorare lo stesso significato del termine, che vuol dire
fraternità, solidarietà tra nazioni.
Non so se nelle scuole
elementari di oggi si continui a ricordare come ai nostri tempi
l’apologo del piccolo Hendrick, il bambino olandese che metteva il
ditino nel foro della diga, lo teneva per tutta la notte e salvava il
villaggio. La sinistra radicale oggi è piena di gente che si professa
risolutamente europeista e spera che un giorno Babbo Natale induca le
élites dominanti a regalarci una Europa solidale, che elimini o attenui
le diseguaglianze, distribuisca diritti e provvidenze per i diseredati
ecc. Quando una fortunata coincidenza astrale porterà al potere in tutti
i paesi europei le sinistre gruppettare.
Ci muoviamo tutti,
all’interno della sinistra italiana, nel solco della irrilevanza.
Dovremmo tentare di uscirne, senza illudersi che sia un percorso breve,
ma studiando con serietà cultura e prassi dei nostri avversari, col
criterio dell’analisi differenziata, rinunciando a demonizzazioni
grottesche e a testimonianze puramente consolatorie.
Ma in ogni caso
voltando pagina rispetto alle fragili certezze del trentennio passato. I
Fronti repubblicani non servono. Servirebbe una sinistra capace di
contendere alla destra proprio quelle classi popolari che ha abbandonato
nell’ultimo quarto di secolo.
Altrimenti la partita è segnata.