Da Micromega del 4 febbraio 2022 (versione inglese Brave New Europe) Il triste anniversario di Maastricht Sergio Cesaratto La flessibilità dei mercati e lo scioglimento dei lacci e lacciuoli sono stati gli strumenti giusti per la crescita economica dei Paesi europei? Il bilancio di tre decenni del Trattato di Maastricht e dei suoi precetti liberisti non è commendevole. E dovrebbe far riflettere tutti, specie a sinistra. Lascio agli storici ricostruire le vicende internazionali e italiane che condussero alla ratifica del Trattato di Maastricht (1992). Vediamone qui qualche aspetto economico per giudicare se
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Da Micromega del 4 febbraio 2022 (versione inglese Brave New Europe)
Il triste anniversario di Maastricht
Lascio agli storici ricostruire le vicende internazionali e italiane che condussero alla ratifica del Trattato di Maastricht (1992). Vediamone qui qualche aspetto economico per giudicare se tale trattato abbia avuto o meno qualche senso.
Prima di Maastricht
Di un’unione monetaria europea si era discusso già dagli anni cinquanta. L’analisi economica ne aveva però scoraggiata la creazione per il diverso grado di sviluppo e istituzioni dei Paesi europei. In particolare, la cosiddetta teoria delle aree valutarie ottimali aveva predetto una tendenza deflazionistica di tale unione. Infatti essa avrebbe con tutta probabilità condotto a squilibri commerciali fra i Paesi membri a vantaggio dei più competitivi. Robert Mundell, che di quella letteratura fu il fondatore, aveva in testa la Germania che già dal 1950 perseguiva con gusto surplus commerciali. Questa avrebbe certamente rifiutato di ridurre tali surplus espandendo la propria economia e accettando un’inflazione più alta al fine di importare di più dai partner. Il modello tedesco prevede infatti un’inflazione al di sotto di quella dei concorrenti e che siano questi ultimi a espandersi importando in tal modo di più e accrescendo la loro inflazione, ampliando così il loro gap competitivo con la Germania. Mundell predisse poi che non potendo gli altri Paesi conseguire disavanzi commerciali e indebitamento ad libitum, essi sarebbero stati alla fine costretti a deflazionare la propria economia a discapito di crescita e occupazione. Questo avrebbe avuto riflessi negativi sulla medesima Germania. Per carità, nei primi dieci anni dell’euro le cose sembrarono andare meglio, se non in Italia almeno in alcuni Paesi periferici come la Spagna. Ma era un’illusione dovuta a boom edilizi finanziati da prestiti esteri, foriera di una crisi finanziaria. Spiego subito perché.
All’epoca di Maastricht nessuno aveva previsto che, come sistematicamente accaduto nel passato in regimi di cambio fisso, anche l’euro avrebbe potuto generare un ciclo di indebitamento estero e boom edilizi nei Paesi periferici sfociando in una crisi finanziaria internazionale. La libertà di movimento dei capitali finanziari e la scomparsa del rischio di cambio fra i Paesi membri di un’unione monetaria costituiscono infatti l’humus ideale per i prestiti internazionali. Era stato così col Gold Standard, e con le politiche di parità fisse col dollaro di molte regioni emergenti culminate in numerose crisi negli anni novanta. La convergenza dei tassi di interesse a lungo termine verso i più bassi livelli tedeschi fece il resto. Questa fu dovuta alla convinzione dei mercati che, in barba alla no bail out clause del Trattato di Maastricht, nessun Paese europeo sarebbe stato lasciato fallire, per cui tutti i titoli di Stato e bancari dell’unione monetaria erano da considerarsi ugualmente sicuri. Fu così che, alla stregua di un superbonus edilizio, i flussi di capitale dai Paesi “core” (Germania e satelliti) ai Paesi periferici (Spagna e i piccoli Paesi anni fa gentilmente definiti PIGS poi diventati, ahinoi, PIIGS) alimentarono in questi ultimi bolle edilizie, crescita dell’occupazione, importazioni da Paesi core e, dulcis in fundo, indebitamento estero.
L’austerità che seguì alla crisi dei PIGS non fu che la medicina necessaria a questi Paesi per ritornare a un avanzo delle partite correnti e restituire il debito. Fu così che l’Unione monetaria europea, dopo la sbornia, tornò alla deflazione prevista da Mundell. La Germania non soffrì più di tanto, c’era sempre la Cina ad assorbire le sue produzioni (mentre un euro sopravalutato sfavoriva le nostre). L’Italia non portava responsabilità per la crisi. Eppure l’austerità fiscale e l’ignavia della BCE, almeno sino alla presidenza Draghi, ci fecero pagare prezzi enormi e inutili di cui dovremmo chiedere il conto alla Germania, che nel frattempo si avvantaggiava delle nostre disgrazie (si legga Cesaratto, MicroMega, 3 dicembre 2021).
Se le discussioni degli anni cinquanta/sessanta gettarono un’ombra premonitrice sui possibili esiti deflazionistici di una unificazione monetaria europea, di moneta unica si riparlò di nuovo nel bel mezzo delle turbolenze monetarie degli anni settanta. In quegli anni, tuttavia, gli ultimi vagiti della saggezza keynesiana suggerirono che all’unione monetaria dovesse essere affiancata un’unione fiscale (come nel famoso Rapporto MacDougall del 1977), un bilancio federale con funzione perequativa degli standard sociali, e per contrastare shock comuni (il ciclo economico) o asimmetrici che avessero colpito singoli Paesi. Un bilancio federale avrebbe avuto la funzione di allontanare lo spettro della deflazione pronosticato da Mundell.
Cambia il vento
I manipoli monetaristi guidati da Reagan e Thatcher spazzarono via tale ventata di buon senso. La politica fiscale fu bollata come inutile e inflazionistica. La politica monetaria inefficace per combattere la disoccupazione. Bene era rimettere il controllo della moneta a banchieri centrali indipendenti e col solo mandato della stabilità dei prezzi. La flessibilità dei mercati e lo scioglimento dei lacci e lacciuoli era la soluzione per crescita e occupazione. La versione nostrana della rivoluzione monetarista ebbe nell’adesione al Sistema Monetario Europea (SME) e nel “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro (oltre che nella sconfitta operaia alla Fiat) i propri momenti sublimi. A guidare tale cambio di regime furono gli Andreatta, i Ciampi e compagnia cantando. Il tentativo di infliggere il rigore fiscale necessario in un regime di cambi fissi a una politica che non ne voleva sentir parlare (siamo ai tempi del CAF), assieme alla liberalizzazione dei movimenti di capitale, portarono al disastro dei conti pubblici (lo racconto con Gennaro Zezza). Tale disastro non fu tanto dovuto all’eccesso di spesa pubblica, quanto alla mancata lotta all’evasione fiscale e, soprattutto, agli elevati tassi di interesse dovuti all’accoppiata SME-divorzio cum liberalizzazione dei movimenti di capitale. Successivamente, con l’euro, un maggior rigore sui conti pubblici e la discesa dei tassi ci consentirono di ridurre il rapporto debito pubblico Pil dal 120 al 100% pre-crisi finanziaria – ma il disastro di SME-divorzio ce lo trasciniamo ancora dietro. Per tre decenni il prezzo della fatica di Sisifo di diminuire il rapporto debito pubblico/Pil è stata la stagnazione della produttività, la vera fonte di ricchezza materiale di un Paese. E per ridurre i tassi sul debito si sarebbero potuti evitare il divorzio, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’erosione di competitività esterna prima con lo Sme e poi con l’euro. Qualcuno paventa che senza la disciplina europea avremmo preso la strada della Turchia di Erdogan. Presumo che qualcosa di meglio il nostro Paese avrebbe potuto forse fare. Gli Andreatta, i Ciampi ecc. vollero mettere in sicurezza l’Italia nello SME e poi nell’euro. I risultati non sono commendevoli. Forse tutti dovremmo riflettere, specie a sinistra.
Maastricht no, a meno che…
Fatto sta che il Trattato di Maastricht ebbe un impianto liberista: nessuna politica fiscale federale; vincoli a quelle nazionali; politica monetaria con l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi. Questi precetti hanno senso? Uno sì, sebbene questo potrà sorprendere qualche mia lettrice: i vincoli alle finanze pubbliche nazionali. Politiche fiscali espansive implicano infatti che il Tesoro (l’organo di spesa del governo) sia affiancato da una banca centrale compiacente, che assicuri il valore nominale dei titoli pubblici fungendone da acquirente di ultima istanza, e anzi comprando titoli di Stato quando vuole diminuire il loro rendimento e l’onere per le casse pubbliche. In assenza di una banca centrale nazionale che affianchi il Tesoro la possibilità di spesa in disavanzo scompare, o è finanziariamente molto rischiosa se eccessiva o persistente. Negli Stati Uniti i singoli membri dell’Unione sono vincolati (de iure o de facto) al vincolo del pareggio, come del resto le regioni italiane col Patto di stabilità interno. Gli Stati Uniti tuttavia hanno un cospicuo bilancio federale, spalleggiato dalla banca centrale, che effettua trasferimenti fiscali perequativi fra gli Stati dell’Unione, e che si incarica di contrastare il ciclo economico (sul confronto Europa/USA si veda lo splendido paper di Barba e De Vivo). La Federal Reserve americana ha peraltro come obiettivi sia la stabilità dei prezzi che la piena occupazione. Quindi bene il patto di stabilità europeo, purché accompagnato da un significativo bilancio federale e una banca centrale col doppio obiettivo di prezzi e occupazione.
Ma l’America è lontana…
La differenza fra la governance economica americana e quella europea va spiegata politicamente: gli Stati Uniti sono una nazione caratterizzata da molte etnie ma che, grosso modo, si riconoscono in un’unica identità nazionale. Questo non accade in Europa dove l’identità europea è qualcosa di molto superficiale. Gli Stati Uniti sono dunque in grado di operare una condivisione delle risorse attraverso il bilancio federale; in Europa vi sono invece problemi a farlo persino all’interno dei singoli Paesi membri (fra Catalogna e Spagna, Fiandre e Vallonia, Germania dell’est e dell’ovest, nord e Mezzogiorno d’Italia e così via), figuriamoci fra Stati. Ad aggravare la situazione v’è l’orientamento mercantilista tedesco che vede nella stabilità monetaria la chiave, accanto alla qualità, della competitività dei beni che esporta, laddove le esportazioni sono il traino dell’economia di quel Paese. Questo comporta una certa ritrosia dell’establishment tedesco verso politiche fiscali e monetarie espansive, foriere di una più alta inflazione.
Si può fare di meglio?
Quello che potrebbe condurre l’Europa a una maggiore compattezza sono le minacce esterne, in particolare la sfida economica e tecnologica cinese. L’Europa sta rivelando la sua fragilità energetica, ma perché non impostare una politica più conciliante con la Russia preoccupata di vedere la Nato ai propri confini. Alla sfida cinese l’Europa dovrebbe rispondere con politiche industriali su scala europea, volte cioè anche a uno sviluppo armonico fra le diverse regioni. Risulterebbe esiziale per l’Europa lasciar ripiombare importanti Paesi membri in una inconcludente austerità fiscale, ciò che potrebbe riportare all’ordine del giorno la rottura dell’unione monetaria. Garanzie europee sui debiti nazionali vanno dunque assicurate sia attraverso la banca centrale che per mezzo di un’agenzia europea del debito. Un percorso va inoltre intrapreso verso un bilancio europeo in chiave sociale e di contrasto al ciclo economico. Certo, i Trattati sono difficili da mutare, ma all’obiettivo della stabilità dei prezzi della BCE va affiancato quello dell’occupazione. Il messaggio sociale europeo deve superare la vuota retorica di cui si sono nutriti sinora gli europeisti per concretizzarsi in obiettivi di perequazione nei diritti sociali. Purtroppo non sono obiettivi raggiungibili col richiamo alla solidarietà, com’è tipico dell’europeista retorico. Le minacce esterne possono costituire una molla all’azione comune, ma rischiano di sfociare nel tentativo di cavarsela ciascuno per proprio conto, di cui la Germania è campione nelle sue politiche di appeasement con Pechino volte a favorire i propri investimenti in Cina.
*Sergio Cesaratto insegna politica monetaria europea all’Università di Siena ed è autore di Sei lezioni di economia (2019) e Sei lezioni di moneta (2021) per Diarkos, dove sviluppa i temi di questo articolo.