Sulla riforma del Patto di stabilità: dal Fatto quotidiano 11 dicembre 2023 Sergio Cesaratto*Le trattative europee sulla riforma del Patto di stabilità non sembrano essere giunte a un compromesso. Le proposte della Commissione già da tempo avanzate sarebbero più flessibili in quanto i sentieri di rientro da debiti e deficit pubblici “eccessivi” sarebbero contrattati dai singoli Stati al fine di modularli a seconda delle situazioni loro specifiche. La Germania ha però indurito la propria posizione esigendo obiettivi di aggiustamento uniformi e predefiniti, soprattutto per i Paesi ad alto debito (vedi box). Il governo italiano ha a sua volta irrigidito la propria posizione ritenendo tali obiettivi impossibili, l’opposto dell’ulteriore flessibilità che intendeva ottenere nella
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Sergio Cesaratto*
Le trattative europee sulla riforma del Patto di stabilità non sembrano essere giunte a un compromesso. Le proposte della Commissione già da tempo avanzate sarebbero più flessibili in quanto i sentieri di rientro da debiti e deficit pubblici “eccessivi” sarebbero contrattati dai singoli Stati al fine di modularli a seconda delle situazioni loro specifiche. La Germania ha però indurito la propria posizione esigendo obiettivi di aggiustamento uniformi e predefiniti, soprattutto per i Paesi ad alto debito (vedi box). Il governo italiano ha a sua volta irrigidito la propria posizione ritenendo tali obiettivi impossibili, l’opposto dell’ulteriore flessibilità che intendeva ottenere nella trattativa.
La regola sulla spesa pubblica proposta dalla Commissione, pur concedendo una certa flessibilità nel concordare i sentieri di aggiustamento con i singoli Paesi, era invero già parecchio rigida. Essa prevedeva che il tasso di variazione della spesa pubblica “primaria”, calcolata cioè al netto della spesa per interessi, venisse irrevocabilmente concordato con la Commissione per un periodo di quattro anni – o di sette in cambio di riforme più stringenti. L’idea era che la crescita della spesa primaria venisse fissata a un saggio più basso del tasso di crescita atteso del PIL. Supponiamo che si stimi che quest’ultimo cresca in media del 2% nei quattro o sette anni successivi. Il tasso di crescita della spesa potrebbe essere fissato al 1%. In tal modo, dato che le entrate fiscali crescerebbero (a parità di norme impositive) del 2% in linea col PIL, la minore crescita della spesa consentirebbe un avanzo primario utilizzabile per ridurre il debito. A fronte della sua apparente semplicità e flessibilità, questa regola apriva un ventaglio di problemi che hanno a che vedere, da ultimo, con la visione tecnocratica della governance europea.
In primo luogo, i sentieri di riduzione del rapporto debito/PIL dipendono fortemente dall’andamento del tasso di interesse medio sul debito. Di questo si tiene naturalmente conto: per esempio, tanto più elevato è l’andamento previsto di questo tasso, tanto maggiori sono gli avanzi primari necessari a ridurre il debito, e dunque minore il saggio di crescita della spesa. Tuttavia, ampi avanzi primari non solo hanno effetti sociali devastanti, ma si ripercuotono negativamente sul tasso di crescita del PIL e dunque sulle entrate fiscali, sicché l’aggiustamento di bilancio si risolve in una inutile fatica di Sisifo. Nelle previsioni sull’andamento del PIL, e dunque nelle proprie stime tecniche che fanno da benchmark al “dialogo” con i governi nazionali, la Commissione continua a rifarsi all’armamentario concettuale del vecchio Patto, discutibile e poco trasparente. Né si tiene conto delle ricadute che le politiche imposte a un Paese europeo hanno sugli altri. E infine, in base a cosa si stimano i tassi di interesse fra quattro o sette anni laddove la BCE, che quei tassi governa, evita previsioni in merito anche a pochi mesi? A irrigidire questa prospettiva tecnocratica priva di buon senso sono giunte le richieste tedesche che si sovrappongono alla proposta della Commissione riproponendo in maniera brutale i vecchi obiettivi del (quasi) pareggio di bilancio e riduzione del debito a ritmi prefissati.
Manca nella discussione europea un genuino superamento dell’analisi economica convenzionale per cui la politica monetaria serve solo a tenere i prezzi stabili; occupazione e crescita vanno perseguite con la flessibilità del mercato del lavoro; la politica fiscale serve solo al margine e va ricondotta all’equilibrio di bilancio. Si perde in essa l’unitarietà della politica economica (fiscale, monetaria, sociale, industriale), la sua dimensione di interdipendenza europea e internazionale, la sua adattabilità all’evoluzione continua del quadro economico. La politica economica si fa inoltre con una politica estera volta a contrastare le ragioni dei conflitti nel cuore dell’Europa e altrove.
Un accordo sul nuovo patto alla fine uscirà in cima a un ridicolo balletto numerico di obiettivi di aggiustamento e di deroghe temporanee, ma ciò non consentirà all’Europa di uscire da un coacervo di regole che nulla hanno a che vedere con una politica economica ed industriale adeguata alle sfide del presente.
* Professore ordinario di politica fiscale e monetaria europea, DEPS-Università di Siena
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In ossequio alle esigenze rigoriste tedesche la Presidenza spagnola aveva proposto per i Paesi con deficit superiori al 3% una riduzione annua dello 0,5% annuo sì da raggiungere un disavanzo dell’1% al fine di conseguire uno spazio fiscale in caso di crisi (fatto salvo il limite invalicabile del 3%). L’accordo sarà su un obiettivo dell’1,5% con qualche sconto sul ritmo di aggiustamento nel 2025-27. I Paesi con alto debito dovranno inoltre ridurlo nella misura dell’1% annuo.