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Nella notte europea tutti i Patti sono stupidi II

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Intervista a Il sussidiario 12 dicembre 2023 (a cura di Lorenzo Torrisi)RIFORMA PATTO DI STABILITÀ/ “La Germania vuole meno flessibilità per non cambiare l’Europa”La posizione tedesca sulla riforma del Patto di stabilità si sta facendo più rigida. All'Italia servirebbe un impegno per l'azzeramento degli spread Un accordo sulla riforma del Patto di stabilità non è ancora stato raggiunto, ma dopo Eurogruppo ed Ecofin si è parlato di “passi avanti”. Cosa ne pensa? Un passo avanti e due indietro verrebbe da dire. La Germania, impegnata in un assurdo aggiustamento dei propri conti pubblici per rispettare lo schwarze Null (pareggio di bilancio) in seguito alle contestazioni dell’Alta Corte di Karlsrhue, ha indurito la propria posizione esigendo obiettivi di aggiustamento uniformi e

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 Intervista a Il sussidiario 12 dicembre 2023 (a cura di Lorenzo Torrisi)

RIFORMA PATTO DI STABILITÀ/ “La Germania vuole meno flessibilità per non cambiare l’Europa”

La posizione tedesca sulla riforma del Patto di stabilità si sta facendo più rigida. All'Italia servirebbe un impegno per l'azzeramento degli spread

Un accordo sulla riforma del Patto di stabilità non è ancora stato raggiunto, ma dopo Eurogruppo ed Ecofin si è parlato di “passi avanti”. Cosa ne pensa?

Un passo avanti e due indietro verrebbe da dire. La Germania, impegnata in un assurdo aggiustamento dei propri conti pubblici per rispettare lo schwarze Null (pareggio di bilancio) in seguito alle contestazioni dell’Alta Corte di Karlsrhue, ha indurito la propria posizione esigendo obiettivi di aggiustamento uniformi e predefiniti, soprattutto per i Paesi ad alto debito.  

Si torna così alle origini in un certo senso: 3% di deficit/PIL invalicabile, obbligo di convergere a ritmo 0,3-0,5% annuo vero l’1/1,5% (così da avere un margine di deficit sfruttabile in caso di congiuntura negativa rimanendo sotto il 3%); riduzione debito/PIL al ritmo dell’1% annuo. L’idea di una politica economica europea come un tutt’uno, col coordinamento delle politiche fiscali, monetaria, industriale, climatica e sociale si allontana vieppiù. Le anime belle che avevano sperato che il NGEU annunciasse una nuova era sono accontentate. La Germania ha anche umiliato la Commissione.

Cioè?

Berlino ha calpestato la proposta di riforma del Patto avanzata dalla Commissione già dalla primavera. Non che fosse gran che…

In che senso?

La Commissione dava centralità alla “regola della spesa primaria” concordando con i singoli Paesi un tasso di variazione della spesa pubblica al netto della spesa per interessi (e di altre componenti “cicliche”) per un periodo di quattro anni – o di sette in cambio di impegni di riforme più stringenti. Con quale logica? La crescita della spesa primaria dovrebbe essere fissata a un saggio più basso del tasso di crescita atteso del PIL in modo che il Paese si collochi su un sentiero di riduzione del debito. Un esempio può aiutare. Supponiamo che si stimi che il PIL cresca in media del 2% nei quattro o sette anni successivi. Il tasso di crescita della spesa potrebbe essere fissato all’1%. Così, dato che le entrate fiscali aumenterebbero (a parità di norme fiscali) al 2% in linea col PIL, la minore crescita della spesa permetterebbe un avanzo primario utilizzabile per ridurre il debito. Un vantaggio per i Paesi è che se il PIL crescesse meno del previsto, supponiamo dello 0,5%, il trend della spesa concordato con la Commissione rimarrebbe invariato potendo così agire da stimolo fiscale. A fronte di violazioni non giustificate da eventi eccezionali scatterebbe in maniera automatica una procedura sanzionatoria che può culminare in pesantissime multe.

Sembra una regola più semplice e ”personalizzata” su ciascun Paese invece di parametri uguali per tutti…

No, il diavolo è nei dettagli. Le stime sul PIL sono fatte col vecchio armamentario neoclassico usato nell’attuale versione del Patto, e che molti hanno definito arbitrario. L’andamento della spesa che viene concordato influenza a sua volta l’andamento del PIL e dunque delle entrate fiscali ma i tecnocrati bocconiani della Commissione sottovalutano questi aspetti keynesiani. La variabile fondamentale per l’andamento del debito è poi il tasso di interesse medio che grava su quest’ultimo. Si fissano regole vincolanti di spesa per più anni sulla base di previsioni sull’andamento di tale tasso anch’esse del tutto arbitrarie. Non si tiene poi conto che quello che viene concordato con un Paese si riflette sulle economie degli altri Paesi. La verità è che la politica economica si fa in tempo reale con una prospettiva almeno europea e a fronte di contingenze costantemente mutevoli. Certo, la volontà tedesca di reintrodurre obiettivi quantitativi predefiniti all’aggiustamento prefigura un ulteriore appesantimento di una proposta della Commissione che è già comunque tecnocratica, e che ogni economista di buon senso considererebbe assurda. Che fine faccia la proposta della Commissione non è comunque ancora chiaro.

D’accordo professore, vi sono tuttavia delle “concessioni” fatte da entrambi i fronti, rigorista e flessibile: per i Paesi come il nostro si parla di un “periodo transitorio” in cui si terrà conto anche delle spesa per gli interessi sul debito aumentata a causa dei rialzi dei tassi della Bce e potrebbero essere scorporati alcuni investimenti. Cosa ne pensa?

Ma sì, qualche scappatoia la si trova sempre, ma è l’impianto ad essere assurdo. Federico Caffè sarebbe inorridito di fronte alle concezioni della politica economica dietro che stanno dietro a queste regole. E poi, in merito ai tassi, ricordiamo che il giudice ultimo della sostenibilità del nostro debito non sono l’Ecofin o la Commissione bensì i mercati. E i mercati fanno e disfano se la banca centrale li lascia fare. La politica economia è unica nei suoi bracci, monetario e di bilancio. L’Italia potrebbe ben accettare vincoli di bilancio più stringenti, ma in cambio di un impegno europeo che coinvolga sia Bruxelles che Francoforte ad azzerare gli spread rispetto ai bund tedeschi (attualmente attorno ai 175-180 punti base).

I Paesi “rigoristi” ottengono infatti una “riduzione minima garantita” annua del debito/Pil e si parla anche della possibilità che i Paesi più indebitati debbano tenere il deficit/Pil entro l’1,5% e non il 3%. Il “periodo transitorio” dovrebbe durare fino al 2027. Dopodiché non si avrebbero regole di fatto ancora più stringenti delle attuali? Qual è il suo giudizio?

Guardi, abbiamo appena detto che a sanzionarci ci sono comunque i mercati. Perché i vincoli europei dunque? Si ha paura che a fronte di una crisi finanziaria dovuta al crollo della fiducia nel debito italiano si ripresenti per l’Italia il dilemma fra un ricorso all’Europa – che ricordo comprende l’intervento sia del MES che della BCE, e la consegna delle chiavi del Paese alla Troika – e l’uscita dall’euro, che ne sancirebbe una possibile fine. L’esperienza dello scorso decennio mostra tuttavia che l’austerità fiscale accompagnata da tassi di interesse elevati porta all’aumento e non certo alla diminuzione del rapporto debito PIL.

È dunque vero che i Paesi più indebitati hanno più difficoltà a far quadrare i conti non tanto perché “spendaccioni”, ma perché il rialzo dei tassi fa costare di più il rifinanziamento del debito. E la Bce potrebbe anche anticipare la scadenza (attualmente prevista a fine 2024) del programma di reinvestimento dei titoli di stato acquistati tramite il programma Pepp… Se ne dovrebbe tenere conto in qualche modo?

Quello dei tassi è appunto il tema chiave. Tassi medi sul debito sufficientemente bassi producono risparmi in conto interessi che possono essere spesi per sostenere la domanda e la crescita (e dunque le entrate fiscali), oltre a essere benefici socialmente. Quindi garanzia europea sugli spread – il “whatever it takes” dimostrò che “basta la parola” come nell’antica pubblicità del digestivo. La riduzione drastica degli attuali spread ridurrebbe in maniera sostanziale l’aumento dei tassi di interesse verificatosi dal 2022 che, rebus sic stantibus, morderà man mano che rinnoviamo lo stock del debito emesso gli scorsi anni a tassi molto bassi. Si tratta di decine di miliardi di spese aggiuntive per interessi che, se destinati agli investimenti, farebbero la differenza per il futuro del Paese.

Ma oltre ai tassi, lei mi dirà, anche per l’inflazione è alta, ed essa può giovare al debito pubblico. Attenzione, l’inflazione certo accresce le entrate fiscali, ma non quelle che provengono dal lavoro dipendente i cui redditi languono, mentre gran parte del lavoro autonomo i cui redditi si adeguano all’inflazione evade allegramente (Irpef e Iva). E infatti il governo ha tagliato, fra l’altro, la spesa sanitaria in termini reali. E qui veniamo dunque alle gravi responsabilità del nostro governo.

Quali?

Non si può andare a contrattare in Europa le regole di bilancio quando si proteggono i lavoratori autonomi evasori e quelli parassitari (balneari e altri ceti protetti) come fa spudoratamente la destra. L’evasione va combattuta senza tregua, e i proventi destinati anch’essi agli investimenti in istruzione e ricerca, sanità, industria e clima. E in merito a tassi di interesse e inflazione, i tassi alti sono tanto nefasti per il debito pubblico quanto poco efficaci per l’inflazione. Infatti quest’ultima è soprattutto frutto della disgraziata politica aggressiva della Nato contro la Russia cominciata trent’anni orsono, una politica che l’attuale governo, a corto di credenziali democratiche, ha ritenuto di appoggiare senza se e senza ma. Ciò non toglie le responsabilità a sinistra. Ha colpito il silenzio di Schlein, Conte e Landini sulle vicende del Patto di stabilità. Nei giorni scorsi se non solidarietà a Giorgetti, almeno una presa di posizione contro le rigidità europee sarebbe stata opportuna, con i distinguo appena indicati. Ma il PD ha delegato la questione a Gentiloni che è uno dei padri (se non il padre) della proposta della Commissione, che non brilla certo per lungimiranza. Gentiloni farà quello che può, ma non si vede perché appiattirsi su di lui.

Francia e Italia (e magari la Spagna) possono vincere le resistenze tedesche?

Qualunque sia il suo colore politico, la Spagna pare sempre ossequiosa ai diktat tedeschi. Dei francesi vatti a fidare: se ballano con noi è solo per far ingelosire Berlino. Tutto questo mostra perché l’Europa è irriformabile in un senso federale. L’Europa non sono gli Stati Uniti. Questi sono un’entità politica in quanto sono una nazione. L’Europa è poco più di un’espressione geografica. Certo di più e di meglio potrebbe fare riformando radicalmente l’impianto di politica economica e sganciandosi dagli Stati Uniti in politica estera. Ma la Germania, il Paese chiave, è disinteressato a cambiare il suo sistema neo-mercantilista. Fa così il bullo in Europa – spesso mandando abilmente avanti i bulletti, gli staterelli suoi satelliti – mentre ha codardamente accettato che Stati Uniti e Ucraina sabotassero il Nord Stream 2. Ma intanto le banche tedesche sono le maggiori beneficiarie di una assurda elargizione, dell’ordine di 130-140 miliardi all’anno, che l’Eurosistema sta effettuando a favore delle banche europee. Ne ho parlato qui e qui (e in un paper accademico qui). “Ma i politici han ben altro a cui pensare”, cantava il grande Guccini.

Cosa si augura per i prossimi vertici europei sulla riforma del Patto di stabilità?

Nulla, assolutamente nulla. L’Europa rimarrà terreno di guerriglia fra Paesi. Ma anche la guerriglia la si fa animati da idee. Vorrei sperare che la sinistra si attrezzasse ad averne. Ma fuori dall’utopismo europeista buono per gli allocchi.

(Il prof. Cesaratto ringrazia il dott. Giancarlo Bergamini per l’usuale prezioso aiuto)

Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto (Rome, 1955) studied at Sapienza, where he graduated under the direction of Garegnani in 1981 and received his doctorate in 1988. He obtained a Master's degree in Manchester in 1986. He worked as a researcher at CNR where he was of Innovation Economics. In 1992 he became a researcher at La Sapienza, and then associate professor in Siena where he teaches Economic Policy and Development Economics.

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