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Il capitalismo mi interroga

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Intervista su WallStreetItalia Che cosa significa per l’Italia una caduta del Pil superiore al 12% 21 Luglio 2020, di Alberto Battaglia Per l’Italia le previsioni economiche difficilmente potrebbero essere più drammatiche: secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2020 il prodotto interno lordo cederà il 12,8%. Con la Spagna, sarà proprio l’Italia il Paese che subirà il colpo più duro. Per chiarire che cosa significhi, in termini concreti, una caduta del Pil di queste proporzioni abbiamo raggiunto Sergio Cesaratto, professore ordinario di economia presso l’università di Siena.Professor Cesaratto, “Pil” è un acronimo familiare a tutti, ma spesso non si è realmente consapevoli del suo significato. Qual è la definizione più concreta possibile che di esso può si

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Che cosa significa per l’Italia una caduta del Pil superiore al 12%

21 Luglio 2020, di Alberto Battaglia
Per l’Italia le previsioni economiche difficilmente potrebbero essere più drammatiche: secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2020 il prodotto interno lordo cederà il 12,8%. Con la Spagna, sarà proprio l’Italia il Paese che subirà il colpo più duro. Per chiarire che cosa significhi, in termini concreti, una caduta del Pil di queste proporzioni abbiamo raggiunto Sergio Cesaratto, professore ordinario di economia presso l’università di Siena.

Professor Cesaratto, “Pil” è un acronimo familiare a tutti, ma spesso non si è realmente consapevoli del suo significato. Qual è la definizione più concreta possibile che di esso può si può dare e perché è ritenuto così importante? 

 Il Pil è quanto produciamo in un anno in beni materiali e servizi. Parte di questa produzione consiste di beni di consumo e parte di beni di investimento (macchinari, impianti ecc…). Parte dei beni di investimento amplia la capacità produttiva (cioè aumenta la capacità di produrre Pil). Ma gran parte di essi sostituisce beni di investimento già esistenti che però sono obsoleti (come un vecchio computer) e andati fuori uso.

Gli investimenti sono fondamentali per modernizzare lo stock di capitale pubblico e privato. Ne sappiamo qualcosa se pensiamo alle infrastrutture italiane (ponti, gallerie, ferrovie, strade, ma anche interventi anti-sismici…) che richiederebbero una dose massiccia di investimenti. Anche gli obiettivi di tutela ambientale richiedono investimenti in impianti meno inquinanti, pensiamo all’Ilva di Taranto, o in migliori infrastrutture civili, pensiamo alle metropolitane urbane.
La produzione annuale di beni e servizi ha effetti negativi sull’ambiente e sulle persone, che però non conteggiamo nel Pil, ma di cui gli enti di statistica cominciano a tener conto. E’ ovvio che dovremmo colpire i consumi inquinanti (come l’uso smodato dell’auto privata o certe forme di turismo), ma questo implica un cambiamento del modello di sviluppo non facile da implementare.
Che cosa ci si deve aspettare quando il Pil si contrae?

In una recessione gli investimenti crollano perché gli imprenditori non sono ottimisti e lo Stato vede diminuire le entrate fiscali. In una recessione, dunque, la gente se la passa peggio e si investe di meno nel futuro. Con coraggio lo Stato deve spendere in disavanzo cercando di sostenere i redditi e la domanda, ma deve cercare di farlo attraverso posti di lavoro creati investendo in progetti utili per il futuro economico, sociale e ambientale. Dovrebbe essere un’occasione di modifica del modello di sviluppo.
L’Italia, secondo le stime del Fmi, sarà il Paese più colpito dalla crisi-Covid, con un calo del Pil previsto del -12,8%. Da quanto tempo non si vedeva una recessione di questo tipo in Italia e quanto è rilevante in una prospettiva storica?
Non sono uno storico dell’economia, ma immagino che qualcosa del genere la si vide nel tragico periodo 1943-45. L’Italia del Covid ègià peraltro da anni su un percorso di stagnazione economica. Ci sono due scuole qui. Chi vede le cause esclusivamente dal lato dell’offerta, le inefficienze sia delle imprese che dell’apparato pubblico del Paese; e chi vede nelle scelte intraprese dal Paese dalla fine degli anni settanta attraverso lo SME, il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, le privatizzazioni e liberalizzazioni, e infine la moneta unica un mix che ha depresso l’economia e gli investimenti sia dal lato della domanda aggregata che dell’offerta [1]. Nel primo dopoguerra la ricostruzione fu rapida e terminata nel 1949-50. Se si tiene conto che il piano Marshall fu piuttosto inutilizzato dal Paese, si può dire che ce la cavammo da soli (ci avvantaggiò forse il fatto che gli impianti del triangolo industriale fossero intatti, erano le infrastrutture ad essere state distrutte). La guerra di Corea, e comunque un ambiente globale keynesiano tirarono poi la crescita del Pil negli anni cinquanta e sessanta.
In questo momento i licenziamenti in Italia rimangono bloccati: realisticamente una recessione di questo tipo dove potrebbe portare la disoccupazione, in condizioni – diciamo così – naturali?
La resilienza dei sistemi sociali è formidabile, almeno sino a che il flusso di pensioni pubbliche, qualche rivolo di spesa pubblica e un po’ di lavoro nero rendono la vita sostenibile. Molte aree del Mezzogiorno lo dimostrano. Il prezzo è la devastazione socio-culturale, la criminalità, il calo demografico.
La crisi del Covid19, col crollo di un’industria come il turismo, fondamentale in molte aree prive di altre risorse, renderà tutto ancor più difficile accentuando le conseguenze negative appena menzionate. Un’immigrazione a sua volta disperata, poco qualificata, portatrice di istituzioni e comportamenti sociali arretrati, non può che peggiorare il quadro di degrado. L’immigrazione non può proseguire in questi termini.
Secondo lei la crisi attuale è assimilabile a una crisi di offerta analoga a quella petrolifera, come, ad esempio, ha sostenuto il professor Michele Boldrin?
La crisi petrolifera fu una crisi dovuta al conflitto sulla distribuzione della torta-Pil fra Paesi industrializzati e petroliferi. Il conflitto era già peraltro da alcuni anni esacerbato fra capitale e lavoro un po’ in tutti i Paesi avanzati. In Italia in particolare, dove la borghesia – da Bava Beccaris, a Mussolini, alla stretta monetaria del 1964, e alla strategia della tensione – ha sempre risposto con la violenza alle istanze di giustizia sociale. I salvataggi di Stato, se ben gestiti, possono portare al salvataggio di importanti spezzoni di industria e relative competenze che andrebbero altrimenti perdute.
Ai poteri miracolistici del mercato a cui crede il professor Boldrin non mi associo, anche se sono consapevole dei problemi dell’intervento pubblico. Boldrin ritiene quest’ultimo “innaturale”. La storia economica e industriale insegna che non è così. Come predicava Friedrich List (ripreso da Joan Robinson), il liberismo è la dottrina che i paesi in cima alla scala della crescita predicano ai paesi inseguitori per impedire loro di svilupparsi. Ma riconosco che trovare un equilibrio fra stato e mercato sia in pratica difficile ma ci si deve provare con un controllo democratico.
A suo giudizio il governo italiano ha adottato una politica economica anti-crisi sufficientemente decisa, o sarebbe stato auspicabile spendere di più?
Spendere di più per un Paese privo di banca centrale nazionale non è possibile. Non che condivida l’idea che con la banca centrale si possa spendere ab libitum, ma vi sono certamente margini maggiori.
Il governo si è barcamenato data anche l’inefficienza della pubblica amministrazione (non sempre naturalmente) e le risorse limitate. Non c’è dubbio che anche settori non bisognosi abbiano fatto ricorso alle casse pubbliche, mentre fa rabbia vedere gruppi sociali (ben noti), che da sempre cercano di evadere il fisco, evocare la mano pubblica nel momento del (presunto) bisogno (questi sono i liberisti nostrani!). L’Europa, per quanto aiuti soprattutto attraverso la Bce, si è limitata a un timidissimo embrione di politica fiscale comune attraverso il Recovery Fund, embrione che probabilmente rimarrà tale.
Comunque la scommessa è nel sostenere i redditi di chi ha veramente necessità, frenare il degrado di intere aree del Paese e nel contempo favorirne la modernizzazione nella direzione della sostenibilità ambientale. Certo la classe politica di cui il Paese dispone non è adeguata, del resto riflettendo in questo la realtà poco istruita degli elettori. La classe politica emersa dalla lotta antifascista è stata certamente migliore, e anche la sua base popolare più politicizzata e consapevole. Purtroppo oggi la sinistra è l’ombra di sé stessa nella sua acquiescenza a un disegno europeista che ci ha portato qualche vantaggio e molti danni; e un destra impresentabile, com’è nella sua migliore tradizione.

[1] Si vedano Sergio Cesaratto, e Gennaro Zezza, Farsi male da soli. Disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano, L’industria, vol. 2, 2019, pp. 279-318, DOI: 10.1430/94135 (free download) e Lucio Baccaro and Massimo D’Antoni, Has the “External Constraint” Contributed to Italy’s Stagnation? A Critical Event Analysis, https://www.mpifg.de/pu/dp_abstracts/dp20-9.asp.

Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto (Rome, 1955) studied at Sapienza, where he graduated under the direction of Garegnani in 1981 and received his doctorate in 1988. He obtained a Master's degree in Manchester in 1986. He worked as a researcher at CNR where he was of Innovation Economics. In 1992 he became a researcher at La Sapienza, and then associate professor in Siena where he teaches Economic Policy and Development Economics.

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