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Realismo politico e conseguenze economiche della guerra

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Pubblicato su invvito da Fuori collana, rivista di giuristi, in un numero sulla guerra (11 maggio 2022)Le conseguenze sociali dell’economia di guerra in Europa Il realismo politico offre utili chiavi di lettura all’economia politica internazionale, mai come oggi messa a repentaglio dall’escalation in Ucraina. L’UE e l’Italia rischiano di essere i vasi di coccio nell’inaudita crisi economica che si profila. Con un certo orgoglio ricordo di aver per alcuni anni accennato, nell’ambito dei miei corsi di economia, al realismo politico nelle relazioni internazionali e nella International

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Il realismo politico offre utili chiavi di lettura all’economia politica internazionale, mai come oggi messa a repentaglio dall’escalation in Ucraina. L’UE e l’Italia rischiano di essere i vasi di coccio nell’inaudita crisi economica che si profila.

Con un certo orgoglio ricordo di aver per alcuni anni accennato, nell’ambito dei miei corsi di economia, al realismo politico nelle relazioni internazionali e nella International Political Economy. L’ho fatto in contesti accademici in cui prevaleva (e prevale) un europeismo acritico basato sul pensiero liberale, per cui il mondo si divide in buoni e cattivi. Il libro che adottavo (Sorensen 2008), edito dalla Bocconi, aveva alcune pagine dedicate all’allargamento della Nato ad Est presentando, doverosamente, le tesi opposte. Veniva in particolare citata un’importante lettera indirizzata nel 1997 al Presidente Clinton da parte di 50 eminenti personalità che si opponevano a tale allargamento (McCgwire 1998). Da quegli anni i segnali della crescente aggressività occidentale e della montante rabbia russa sono evidenti. Avevo avvicinato il Realismo politico su suggerimento di un libro nel quale il grande Danilo Zolo esprimeva il suo scetticismo nei riguardi delle guerre umanitarie. Il mio interesse di economista si è naturalmente indirizzato al dibattito nell’ambito della International Politica Economy fra, da un lato, liberisti e marxisti sostenitori del cosmopolitismo (sebbene per differenti ragioni) e, dall’altro, i sostenitori del nazionalismo economico alla Robert Gilpin. Uno studioso, quest’ultimo, di fede liberale, ma che non confondeva gli ideali con la cruda realtà economica. Trovandomi il prossimo anno ad insegnare nuovamente Economia internazionale non mancherò di far riflettere gli studenti su queste questioni.

Gli effetti della guerra sull’economia globale

Gli effetti della guerra sull’economia italiana saranno devastanti, e il Paese farebbe bene ad affrontarli facendo tesoro del realismo politico non solo per analizzare la situazione internazionale, ma anche per assumere una prospettiva di difesa degli interessi economici nazionali. Da entrambi i punti di vista l’interesse dell’Italia è nel ripristinare la stabilità e coesistenza pacifica in Europa nel rispetto del diritto all’indipendenza di tutti i popoli nella sicurezza reciproca. Se non si ricomincia a ragionare delle ragioni che hanno condotto all’attuale situazione non si potrà ricostruire un percorso di pace e coesistenza. Certo, c’è stata un’aggressione dai tratti certamente brutali (sebbene solo l’ingenuità o la malafede possano far credere che in un conflitto i buoni sia tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra). Ora si tratta, tuttavia, di evitare non solo ulteriori lutti per quelle povere popolazioni, in primis quella ucraina, a cui va la nostra piena solidarietà, ma altre terrificanti e durature conseguenze.
Lasciando da parte la probabilità mai così elevata di un olocausto nucleare, e comunque di un futuro di sconvolgimento geo-politico segnato da paura e incertezza, ulteriori sofferenze deriveranno dalle conseguenze economiche della crisi. Fra queste l’interruzione delle forniture di grano – in particolare ai Paesi più poveri – di cui l’Ucraina è produttore primario, a cui si aggiunge quella di fertilizzanti dalla Russia; l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime; l’aggravamento della crisi nelle forniture internazionali di beni di produzione già minata dalla pandemia e dalla sua recente recrudescenza in Cina; più in generale una complessiva incertezza nelle relazioni economiche internazionali e una probabile ristrutturazione industriale globale. Non scordiamoci che gli Stati Uniti parlano a nuora (la Russia) perché suocera intenda (la Cina).
Gli effetti di aggravamento della crisi ambientale sono evidenti, dai depositi di carburante dati alle fiamme nel confitto, alle riaperture delle centrali a carbone, al ridimensionamento e perdita di centralità della conversione ecologica. Le conseguenze sul tenore di vita dei ceti popolari, anche nei Paesi più ricchi, saranno altrettanto devastanti sia per il crollo del loro potere d’acquisto in seguito all’aumento del prezzo dei beni di prima necessità e dell’energia e sia per la disoccupazione che conseguirà dalla ristrutturazione industriale e dal calo della domanda conseguenza del crollo di detto potere d’acquisto. I costi umani indiretti della guerra e del futuro di instabilità geo-politica che si prepara saranno severi, e si aggiungono ai lutti diretti.
Fra le aree avanzate l’Europa sarà la prima vittima di questa instabilità non avendo, a differenza degli Stati Uniti, una governance economica federale, in particolare un bilancio federale, che la metta in grado di affrontare in maniera solidale gli shock. Certo, a differenza della crisi finanziaria e fiscale del principio dello scorso decennio, a fronte della crisi pandemica qualcosa in più l’UE ha fatto (la Commissione con il NGEU e la BCE con un nuovo quantitative easing denominato PEPP). Ma ora lo shock è ancora più grande e duraturo, e nulla all’orizzonte si prospetta se non maggiori rigidità. Il realismo politico, sempre lì torniamo, ci suggerisce che persino in questo frangente, o forse a maggior ragione in questo frangente, la solidarietà politica, e dunque economica, fra le diverse nazioni che compongono l’UE non ci sarà.
A livello globale l’occidente vive la sindrome imperialista del “c’è nebbia nella Manica, il continente è isolato dalla Gran Bretagna”. Non si rende cioè conto che il grosso del mondo emergente che include le potenze emergenti è perlomeno equidistante nel conflitto: a essere isolato è l’occidente, e lo potrebbe diventare anche economicamente oltre che politicamente.

Il vaso di coccio dell’Italia

In tutto questo l’Italia è particolarmente esposta a una crisi economica, sociale e finanziaria di prima grandezza. Da Paese esportatore essa perderà dalla frattura con la Russia – un mercato non così irrilevante come si dice – e dalla crisi dell’economia europea e globale; da Paese importatore di energia e beni intermedi essa soffrirà del calo del potere d’acquisto delle famiglie e dell’aumento dei costi di produzione. Inflazione, impoverimento e aumento della disoccupazione sono la prospettiva. Ma è sul debito pubblico che la crisi si riverbererà attraverso l’aumento dei tassi di interesse già in corso non solo impedendo politiche di sostegno a famiglie ed imprese, ma addirittura facendoci tornare ai famigerati anni 2011-2012 in cui ai tagli di bilancio si accompagnava il crollo del PIL. Ma ora sarà peggio.
Avendo in particolare in mente la precaria situazione italiana, ancor più delle altre banche centrali la BCE è combattuta fra l’aumento dei tassi di interesse in chiave antinflazionistica e il pericolo che questo aggravi la recessione e, nella fattispecie europea, il collasso delle finanze pubbliche italiane. Peraltro, l’aumento dei tassi è inefficace rispetto all’origine dell’inflazione che è tutta dovuta a fattori esterni (aumento prezzi dell’energia, grano, e degli approvvigionamenti industriali). Si aumentano i tassi per stroncare in anticipo eventuali richieste di adeguamenti salariali nominali all’inflazione (i cosiddetti “second round effects”) sì da impedire una spirale prezzi-salari. Una prospettiva orribile quella di accrescere ancor di più la disoccupazione per controllare i salari invece di perseguire una solidarietà sociale che redistribuisca i costi della crisi fra le classi. Ma del resto l’UE ha agito nei recenti decenni nella direzione di demolire invece che di rafforzare le strutture della solidarietà politico-sociale perseguendo l’ordoliberismo (ipocritamente definito economia sociale di mercato) invece che il modello social-democratico. La perversità della situazione attuale la si vede anche nel fatto che, essendo di origine esterna, l’inflazione non contribuisce a decrescere il rapporto debito/PIL. In termini semplici, l’inflazione in genere avvantaggia i debitori a danno dei creditori, ma se essa viene dall’estero (aumento dei costi delle importazioni) tutto il Paese perde. A fronte di un collasso delle finanze pubbliche italiane, e approfittando dell’emergenza bellica, l’Europa avrà finalmente l’occasione per farla finita con l’instabilità strutturale che la debolezza italiana introduce nella moneta unica. La soluzione sarà un nuovo “whatever it takes” che, attenzione, questa volta non sarà un sortilegio salvifico per cui gli spread magicamente calano come ci apparve all’epoca di Draghi presidente della BCE, ma richiederà un po’ di arsenico e dunque la partecipazione dei temuti MES e Troika (Commissione europea, BCE, IMF) contemplata qualora la BCE intervenisse a specifico sostegno dei titoli di Stato italiani. Questo significa ristrutturazione del debito pubblico italiano a danno dei risparmiatori e consegna delle chiavi della politica economica italiana alla Troika. La fine rapida del conflitto e il ristabilimento di una convivenza pacifica europea e globale è dunque per il nostro Paese questione cruciale. Il governo non può e non deve allinearsi alla prospettiva bellicista degli Stati Uniti, pur essendo fermo nel garantire l’indipendenza e neutralità dell’Ucraina nell’ambito di un compromesso con la Russia, magari ispirato all’inapplicato Trattato di Minsk.

Concludendo

A chi ci critica di cinismo a fronte di un’aggressione che chiamerebbe vendetta, l’accusa si ritorce contro: siete voi a perorare che la faida continui e diventi globale. La strada indicata da Papa Francesco, quella della comprensione, è certamente dura, durissima, ma una qualche forma di compromesso è l’unica via per la pace. Non sono un credente, ma sempre sia pace agli uomini e donne di buona volontà.

Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto (Rome, 1955) studied at Sapienza, where he graduated under the direction of Garegnani in 1981 and received his doctorate in 1988. He obtained a Master's degree in Manchester in 1986. He worked as a researcher at CNR where he was of Innovation Economics. In 1992 he became a researcher at La Sapienza, and then associate professor in Siena where he teaches Economic Policy and Development Economics.

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