Articolo con Matias Vernengo sul nuovo presidente argentino e la sua proposta di dollarizzare il Paese, pubblicato su Il Fatto quotidiano lo scorso 27 novembre 2023. Il ritorno del neoliberismo in Argentina Matias Vernengo* e Sergio Cesaratto** Il presidente eletto dell'Argentina, Javier Milei, è un populista di estrema destra, con tendenze autoritarie semi- fasciste. È un ammiratore di Trump e Bolsonaro e ha affinità con molti leader di estrema destra europei come Giorgia Meloni. È anche nemico del Papa, definito come "il rappresentante del Maligno sulla terra” per le sue critiche al capitalismo liberista. Le sue proposte vanno dal pericoloso - come la dollarizzazione, la chiusura della Banca Centrale, la drastica riduzione della spesa sociale, l'allentamento delle leggi sul
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Articolo con Matias Vernengo sul nuovo presidente argentino e la sua proposta di dollarizzare il Paese, pubblicato su Il Fatto quotidiano lo scorso 27 novembre 2023.
Il ritorno del neoliberismo in Argentina
Matias Vernengo* e Sergio Cesaratto**
Il presidente eletto dell'Argentina, Javier Milei, è un populista di estrema destra, con tendenze autoritarie semi- fasciste. È un ammiratore di Trump e Bolsonaro e ha affinità con molti leader di estrema destra europei come Giorgia Meloni. È anche nemico del Papa, definito come "il rappresentante del Maligno sulla terra” per le sue critiche al capitalismo liberista. Le sue proposte vanno dal pericoloso - come la dollarizzazione, la chiusura della Banca Centrale, la drastica riduzione della spesa sociale, l'allentamento delle leggi sul possesso di armi e la criminalizzazione degli aborti - al folle - come l'istituzione di un mercato degli organi umani. Molte sue opinioni sono neo-autoritarie, come la sua critica alla democrazia e la sua minimizzazione delle violazioni dei diritti umani da partev dell'ultima dittatura. Durante la campagna elettorale ha affermato che potrebbe non fare nulla di ciò che ha promesso, con una eccezione: la dollarizzazione.
I pericoli di quest’ultima non possono essere minimizzati. Essa significa l'eliminazione della moneta nazionale con la rinuncia alla capacità di condurre una politica economica indipendente. Qualcosa di simile è accaduto in Italia con l’adozione dell'euro, ma almeno il Bel Paese ha mantenuto una seppur flebile voce in capitolo sulle scelte della BCE.
La prima conseguenza della dollarizzazione è, ovviamente, la perdita della politica monetaria. La moneta creata dalla banca centrale sotto forma di riserve bancarie e banconote sarebbe vincolata dai dollari presenti nel Paese, e ciò limita anche il credito bancario potenziale. Il tasso di interesse di base sarebbe inoltre fissato dalla Federal Reserve americana (Fed). Il Tesoro emetterebbe debito in dollari, ma le obbligazioni argentine così denominate pagherebbero comunque un premio di rischio rispetto ai titoli del Tesoro degli Stati Uniti. E la Fed non sarebbe certo tenuta a sostenere le obbligazioni argentine in periodi di difficoltà quando i tassi di interesse potrebbero salire a livelli insostenibili. L'obiezione standard è che, una volta scomparso il rischio di svalutazione, i tassi d'interesse scenderebbero. Nell'esperienza italiana questo è accaduto con l’euro sino al 2008, ma in seguito, senza l'ombrello della BCE, il rialzo degli spread avrebbero portato l'Italia al default o all’uscita dall'euro. Ciò significa che quello che Draghi nel suo discorso più famoso chiamò "rischio di ridenominazione" dei titoli in valuta nazionale non scompare mai veramente del tutto.
La rinuncia a una valuta nazionale implica l'impossibilità di svalutare la propria moneta per stimolare le esportazioni. Nel caso delle economie più avanzate che esportano beni manifatturieri, come l'Italia, questa è stata una conseguenza negativa dell'euro. Per l'Argentina, che si è deindustrializzata negli ultimi cinque decenni ed è soprattutto un esportatore di materie prime come la soia, l'impatto sulle esportazioni manifatturiere è tuttavia più limitato. Le esportazioni dipendono soprattutto dalla crescita dell'economia mondiale, in particolare della Cina, il principale acquirente di commodities argentine.
La cosa più importante dell'abbandono del peso [la moneta nazionale argentina] sembra invece essere la rinuncia, in larga misura, alla politica fiscale, cioè alla capacità del governo di manovrare il proprio bilancio e il debito nazionale. E’ pur vero che nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, Argentina compresa, la politica fiscale è sempre vincolata dalla bilancia dei pagamenti. Il governo non può spendere e aumentare la produzione e il reddito, con conseguente aumento delle importazioni, oltre la capacità di contrarre prestiti in valuta estera. In altre parole, se l'economia e il suo fabbisogno di valuta estera crescono oltre il tasso di crescita delle esportazioni nette, si verifica una crisi esterna. Ma la dollarizzazione aggrava il problema. Tutto il debito sarebbe in valuta estera. Il debito in valuta estera può essere ripagato solo con i dollari ottenuti da avanzi nei conti esteri (che l’Argentina non ha), il che limiterebbe drasticamente la capacità del governo di contrarre prestiti a tassi ragionevoli, anche alla luce del fatto che l'Argentina è già molto indebitata con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e con i creditori privati. La banca centrale non sarà più in grado di acquistare titoli di Stato e di mantenere relativamente bassi i tassi di interesse sul debito pubblico, cosa che, contrariamente a quanto la maggior parte della gente pensa e gli economisti ortodossi ritengono, è una funzione tipica delle banche centrali. La Federal Reserve lo ha fatto durante la Grande Recessione del 2008 e la Pandemia. Lo ha fatto anche Draghi. Ma la Fed non comprerà certo i titoli argentini!
La dollarizzazione, come l’adozione dell'euro, costituirebbe un ostacolo drammatico alla crescita dell'economia argentina, simile al duro aggiustamento imposto dalla Troika ai Paesi dell'Europa meridionale nello scorso decennio. La Grecia che ha un PIL ancora inferiore di oltre il 20% rispetto al suo picco prima della crisi, è un ammonimento per l'Argentina.
Naturalmente, per gli economisti neoliberisti come Milei, sedicente economista della “scuola austriaca”, l'idea è quella di dollarizzare per fermare l'inflazione, che sta sfiorando il 140% annuo. L'inflazione non è però causata dalla banca centrale e dalla stampa di pesos. L'inflazione deriva dal persistente deprezzamento del peso, causato dalla mancanza di dollari, e dalla resistenza dei salari. Un peso deprezzato riduce il potere d'acquisto dei salari in quanto fa aumentare i prezzi dei beni importati, sicché i lavoratori chiedono salari più alti. Ciò si ripercuote sui prezzi, alimentando il conflitto distributivo. La dollarizzazione risolverebbe il problema precludendo in via di principio qualsiasi deprezzamento della valuta. Per poter dollarizzare, Milei dovrebbe tuttavia preventivamente procurarsi enormi quantità di dollari necessari al funzionamento dell’economia. Se ci riuscisse la banca centrale potrebbe a quel punto intervenire sul mercato dei cambi, stabilizzare il peso e fermare l'inflazione. In altre parole, la dollarizzazione è possibile solo in una circostanza in cui non è più necessaria.
Il vero motivo per cui la dollarizzazione gode del sostegno delle élite argentine è la volontà di ottenere una radicale riduzione dei salari reali in dollari. In effetti, Milei ha apertamente affermato che più il peso si deprezza prima della dollarizzazione, meglio è. In altri termini intende favorire una forte svalutazione del peso, sì da ridurre il valore dei salari in dollari, e poi dollarizzare. È un modo astuto per ridurre i salari. Per stabilizzare l'economia, ne provocherebbe l’impoverimento radicale. Curerebbe la malattia, ma ucciderebbe il paziente.
*Professore di Economia alla Bucknell University (Pennsylvania), già Senior Research Manager presso la Banca centrale della Repubblica Argentina.
** Professore ordinario di Politica monetaria europea presso l’Università di Siena.