Intervista, mi sembra ben riuscita, su letture.orgProf. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese? La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il
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Prof. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito
da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la
crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese?
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo
perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci
portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di
come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni
del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si
rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla
lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese
dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che
domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è
stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da
quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha
riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è
ignota alla maggioranza degli italiani, persino da quelli colti. Eppure è
una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come
Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa,
personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più
ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa
controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo
scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i
gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria
analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia
fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del
celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese
erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani
(1930-2011) e Luigi Pasinetti. Garegnani fu l’allievo prediletto di
Sraffa ed è stato il mio maestro. A lui devo la chiarezza concettuale
delle Sei lezioni che credo sia ciò che ha colpito di più i
lettori. “There are two approaches”, “vi sono due impostazioni”, così
esordiva nelle sue lezioni, invitandoci a guardare all’economia
attraverso le lenti delle grandi teorie economiche. Lo faceva dondolando
un poco, e imitando con le mani il movimento della bilancia.
Semplificando molto, la teoria classica aveva al suo centro
il concetto di sovrappiù sociale. Questo è definito come ciò che rimane
del prodotto sociale una volta tolte le sussistenze per i lavoratori.
Questo semplice concetto ci dà la chiave per ricostruire il
funzionamento delle diverse “formazioni economiche” pre-capitalistiche,
dall’economia neolitica alle civiltà antiche e successivamente al
feudalesimo. A seconda delle diverse condizioni geografiche e
storico-istituzionali diverse sono infatti state le modalità con cui le
classi dominanti si sono appropriate de sovrappiù sociale. Non è un caso
che tale concetto sia ampiamente utilizzato negli studi archeologici
delle civiltà antiche e nell’antropologia. Per fare due nomi noti, Vere
Gordon Childe (1892-1957), il più grande archeologo dello scorso secolo,
usava il concetto di sovrappiù. D’accordo, era marxista, ma lo impiega
anche Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie (Einaudi), che molti lettori ben conosceranno, e Diamond non è marxista.
(La lezione intermedia, la quarta, è dedicata alla moneta e al vincolo che la bilancia dei pagamenti pone alle politiche espansive nazionali).
Quali sono dunque le cause della crisi europea?
In generale l’analisi economica di orientamento keynesiano aveva
scoraggiato un’unione monetaria europea. Se ne era parlato sin dagli
anni cinquanta, e gli economisti scoraggiarono tale idea. La
flessibilità del tasso di cambio è infatti un buon lubrificante nelle
relazioni economiche fra Paesi con caratteristiche
economico-istituzionali diverse, come accade fra i Paesi europei. La
lezione della drammatica uscita dell’Italia (e del Regno Unito) dal
sistema monetario europeo nel 1992 doveva anche essere di monito (lo SME
fu un sistema di cambi fissi fra le monete europee fra il 1978 e il
1999, una sorta di padre dell’euro). Lo SME creò squilibri all’economia
italiana, ma potemmo uscire e aggiustare i conto con l’estero. Quelli
pubblici no, in seguito sia alla sciagurata indipendenza della Banca
d’Italia dal Tesoro inaugurata nel 1981, per cui la Banca non fu più
tenuta al suo dovere di sostenere i titoli di Stato, che
all’irresponsabile progressivo smantellamento dei controlli sui
movimenti di capitale. Negli anni dell’euro pre-crisi lo sforzo di
rispettare i parametri fiscali europei ci è costata la stagnazione
dell’economia. La crisi europea scoppiata col caso greco nel 2010 non ha
a che fare con l’Italia, comunque. Ci torniamo più avanti.
Quali debolezze caratterizzano la costruzione europea?
Un’unione monetaria implica un’unione politica, come negli Stati Uniti. I
membri più ricchi dell’unione si rendono disponibili a sostenere i
membri più deboli. Questo implica un ampio bilancio federale che
redistribuisce risorse e agisce, sostenuto dalla banca centrale, per
contrastare le fasi negative del ciclo economico. In Europa si è fatto
l‘azzardo di anteporre l’unificazione monetaria a quella politica col
risultato, catastrofico, di aver allontanato quello che doveva rimanere
un obiettivo graduale e di lunghissimo periodo, ovvero l’unificazione
politica. Fra i popoli europei non c’è solidarietà politica. Non c’è
all’interno dei singoli Paesi – dei veneti verso i calabresi, dei
catalani verso gli andalusi, dei fiamminghi verso i valloni, fra Germani
ovest e est e si potrebbe continuare. Di che parliamo dunque. Chi
blatera di Europa federale, solidarietà ecc. è un illus*, o in cattiva
fede. Il principe degli economisti liberisti, Hayek (1899-1992), lo
scrisse chiaramente nel 1939. Un’Europa federale redistributiva non è
possibile, l’unica Europa possibile è quella fondata sul laissez-faire.
La più coerente europeista è infatti la Bonino, che è una liberista e
alla quale quest’Europa va benissimo – anzi ne vorrebbe di più in quanto
veicolo di liberismo.
Che dire delle politiche monetarie e fiscali europee?
Queste politiche si rifanno alla parte più retriva della teoria
dominante. Come spiegato nella seconda lezione, secondo questa teoria la
politica monetaria è inefficace per sostenere l’occupazione ma produce
solo inflazione. Allora la banca centrale deve essere indipendente dai
politici e col solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Ecco la BCE
(che naturalmente sotto Draghi ha cercato anche di agire in difesa della
crescita, ma con l’opposizione feroce della Germania). In questa
visione la politica fiscale è inutile, anzi controproducente in quanto
sottrae risorse al settore privato. Ecco i paletti di Maastricht su
debito e deficit pubblici, e tutta la congerie di misure di rigidità e
controlli ossessivi sulle finanze pubbliche nazionali. In questo quadro,
il mondo di Carlo Cottarelli verrebbe di chiamarlo, l’obiettivo
dell’occupazione è lasciato alle cosiddette riforme strutturali, leggi
alla liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro. In questo senso
l’occupazione è per l’UE un problema nazionale, di riforme nazionali.
Tutto questo è profondamente anti-keynesiano. Per i keynesiani più
genuini il problema dell’occupazione è internazionale, richiede cioè
politiche fiscali e monetarie espansive concertate a livello regionale e
globale. Dall’esperienza di Mitterrand nel 1981-82 in Francia sappiamo
che politiche keynesiane in un Paese solo sono impossibili a causa del
menzionato vincolo della bilancia dei pagamenti. Se ne parla nella
quarta lezione.
La Germania è il Paese chiave. Purtroppo è un Paese strutturalmente incapace di esprimere una leadership positiva. Riesce ad essere sempre devastante. Ha impostato tutta la sua politica economica del dopoguerra su quello che un importante storico economico tedesco ha definito “mercantilismo monetario”. In questo modello le esportazioni fungono da traino dell’economia. Ciò implica tecnologia, ma anche acquiescenza sindacale al modello sì da avere prezzi competitivi. Il modello si perfezioni in contesti di tassi fissi, in cui i Paese più “keynesiani” come Francia, Regno Unito o Stati Uniti, non possono reagire alla politica tedesca svalutando la propria moneta. Così la Germania vive dell’espansione della domanda interna degli altri Paesi e del loro minore rigore salariale. È un modello destabilizzante dell’economia europea e mondiale. Invece di fare da locomotiva, la Germania fa da vagone. È un comportamento irresponsabile. Lo si è visto nell’Europa dell’euro. Come si spiega nella quinta lezione, la moneta unica favorì l’indebitamento di alcuni Paesi della periferia europea come Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo verso la Germania (e la Francia, ma questa fingeva da mera intermediaria per le banche tedesche). La Germania praticava quella che si chiama “vendor finance”: fornire credito ad altri Paesi affinché comprino prodotti tedeschi. Ma questo porta all’indebitamento di questi Paesi e a una crisi finanziaria, come s’è visto. E anche Stati Uniti e Cina sono forse stanchi di questa politica tedesca di vendere e non comprare.
Un'”altra Europa” è possibile?
Qual è la domanda di riserva? Certo che è possibile in via teorica. Si
tratta di completare l’unione monetaria nella direzione di Stati Uniti
d’Europa. Quindi un forte bilancio europeo che miri a perequare le
condizioni di vita nei diversi Paesi (quello attuale, meno dell’1% del
Pil europeo, è ridicolo); una BCE che ponga l’occupazione come suo
obiettivo con la medesima dignità della stabilità dei prezzi (come per
la Federal Reserve americana); un’unione bancaria completa per cui le
crisi bancarie locali sono affrontate con risorse federali; una politica
estera comune… Sì, siamo al libro dei sogni. Solo un illuso, di cui il
mondo è purtroppo pieno, può pensare che esistano le condizioni
politiche per questa evoluzione. Di molto meno ci accontenteremmo: un
BCE che continui ad essere accomodante e sostenga una politica fiscale
espansiva, soprattutto da parte di chi non ha problemi di debito
pubblico, come per anni ha chiesto Draghi. E si noti che non è per virtù
che alcuni Paesi hanno i conti in ordine: i problemi degli altri si
sono tradotti in domanda per i titoli di Stato tedeschi od olandesi, che
in più si sono avvalsi degli acquisti da parte della BCE. È facile così
tenere i propri conti in ordine!
Voglio però concludere con un accenno ai danni che l’Europa di
Maastricht ha apportato alla democrazia. Quest’ultima presuppone che le
scelte di politica economica – inclusa la politica monetaria – siano
oggetto delle scelte degli elettorati nazionali. Il rischio è che sennò
la democrazia si riduca al dibattito sui diritti civili, sacrosanto, ma
sufficiente solo per i sostenitori del laissez faire e non per
la tradizione riformista socialista. La delega delle scelte di politica
economica a strutture tecnocratiche sovranazionali, dominate peraltro
dalle potenze dominanti, è la mortificazione della democrazia quale si
esprime nei parlamenti nazionali. Purtroppo le élite cosmopolite della
democrazia e del suffragio universale hanno ormai disprezzo.
Riferimenti
Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019.
Sergio Cesaratto, e Gennaro Zezza, Farsi male da soli. Disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano, L’industria, vol. 2, 2019, pp. 279-318, DOI: 10.1430/94135
Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria e fiscale europea ed Economia internazionale presso l’Università di Siena. È uno dei più noti economisti “eterodossi” internazionali. Si è occupato fra l’altro di crescita economica, pensioni, innovazione e, ultimamente, della relazione fra teoria del sovrappiù, Polanyi e archeologia e antropologia economica. I suoi contributi sono stati pubblicati dalle principali riviste scientifiche eterodosse internazionali. È uno dei più noti partecipanti al dibattito pubblico italiano ed europeo sul tema della crisi dell’eurozona.